Di Serena Case. In questa relazione vorrei raccontare le mie emozioni attraverso le parole di una “niña” con cui ho recentemente parlato per realizzare un'intervista che dia la parola ai bambini, diretti beneficiari del progetto, affinchè possano dire la loro su cosa rappresenta il centro.
A raccontarsi e’ Lisbeth, tredicenne, una fra i veterani, che conosce bene il centro e che ogni anno ha visto arrivare e andare via molti volontari. Il momento e’ molto confidenziale, non sono ancora arrivati gli altri bambini e, una volta che entrambe ci mettiamo a nostro agio, rompe il silenzo che stranamente predomina oggi nella struttura e inizia a raccontarsi a voce bassa. “Sono arrivata al centro circa cinque anni fa, quando a scuola frequentavo il sesto grado. Quando siete arrivati voi volontari, la prima cosa che ho pensato è stata il perché siate venuti, ed i precendenti volontari, Paolo e Diana, mi hanno spiegato che loro sarebbero andati via a breve e che da quel momento in poi vi saresti presi cura di noi. Mi sono abituata alla vostra presenza dopo un po’…”
Le confesso che anche per noi, inizialmente, non è stato immediato l’approccio con loro e con il centro stesso, perchè la mole di lavoro era grande, il personale poco e, molti di noi, avevano scarse conoscenze della lingua spagnola.
La bambina mi sorride un pò sarcastica e un pò comprensiva, e subito procede incalzante con la sua confessione: "Sempre arrivano nuovi volontari che dopo un anno vanno via, per me questa è una cosa brutta perché dopo cos¡ tanto tempo assieme si instaura un bel rapporto di confidenza che gli altri non capiscono. A volte vorrei che venisse una sola persona, che però si fermasse qui tutta la vita, perchè quando arrivano i nuovi volontari ci si limita a realizzare le attivitá, però manca la confidenza per scherzare e per parlare intendendosi veramente”.
Non nascondo che capisco perfettamente il suo punto di vista, perchè per certi versi è lo stesso anche per noi volontari; ci si trova catapultati in un mondo nuovo, molto diverso da quello che si conosceva prima e, per quanto un anno possa sembrare parecchio tempo, in realtà è il tempo appena necessario per capire qualcosa in più ed entrare consapevolmente a far parte delle dinamiche che qu¡ ci circondano.
L’intervista, adesso, assume toni più intimi e personali, e Lisbeth, ben disposta a raccontarsi, prosegue con la voce un pò tremolante. “Il centro per me è davvero come una casa, nel senso che qui mi sento esattamente come mi sento a casa mia; l’ambiente sa di famiglia e quando mi consigliate qualcosa, o vi comportate in modo affettuoso mi sembra di stare con mio papà e questo mi rende felice”.
Ascoltare queste parole indubbiamente rende felice anche me; se davvero nel corso di questo anno i nostri sacrifici e le nostre idee sono serviti, in parte, a fare del centro una casa, il nostro lavoro ha avuto senso ed ha apportato dei benefici, seppure minimi, a bambini che da sempre vivono questa realtà e a noi grandi che la stiamo vivendo come ospiti in questa grande famiglia. A smorzare l’ atmosfera sorridente durante il dialogo ci pensano gli occhi di Lisbeth, occhi nerissimi, a mandorla e gonfi di lacrime. “Adesso che manca circa un mese ai saluti ho voglia di piangere perchè voi ci avete trattati sempre bene, senza mai farci mancare niente; dal pranzo, alla merenda, ai giochi, ai laboratori, agli abbracci, ai rimproveri, ai consigli, all’aiuto che ci date per svolgere i compiti di scuola; quando penso a quel giorno non riesco ancora a credere che tornerete nel vostro Paese”.
Tutto questo mi spiazza e, per poco, non cedo anche io alle lacrime sapientemente occultate da un’insolita parlantina in cui le racconto quali sono i miei ricordi più belli legati a loro bambini e al centro preventivo Ubaldo Bonuchelli. Anche lei, così, ricambia con un aneddoto: “Il ricordo più bello che ho legato al centro riguarda un pomeriggio al fiume, ricordo che abbiamo nuotato e giocato assieme come sappiamo ormai fare fra di noi, poi ci avete offerto una buona merenda e alcuni di noi sono tornati al centro con voi volontari perchè eravamo tutti bagnati e ci avete dato dei nuovi vestiti asciutti, anche in quel momento ho sentito lo stesso amore che sento quando sono a casa, con la mia famiglia”.
L’intervista si conclude con un abbraccio, senza altre parole che ora non necessitano e con la speranza che il centro preventivo Ubaldo Bonuchelli possa continuare ad essere una casa per molti bambini che qu¡ trascorrono serenamente il loro tempo, insieme per crescere.