Di Luigi Merico, Ibarra (Ecuador) - Sono passati ormai due mesi da quando mi sono trasferito ai piedi dell’Imbabura, maestoso vulcano nei pressi di Ibarra, una città di circa 130 mila abitanti che, tuttavia, conserva le tipiche dinamiche di paese. La città è abbastanza tranquilla e la gente molto cordiale. Bastano poche settimane affinché passeggiando tra le vie a ritmo di salsa le persone comincino a riconoscerti, chiamarti per nome o con un affettuoso “mi vecino”. Tuttavia, dietro i ritmi sereni tipici dell’America latina, i parchi ben curati ed i colibrì che svolazzano da un ramo all’altro giusto fuori dalla finestra, è semplice scrutare delle realtà problematiche.
L’Ecuador, infatti, non è di certo un paese in cui trovare stabilità economica risulti semplice. Basta infatti ascoltare i racconti delle persone che si incontrano nella vita diaria per capirlo. Una barista, ad esempio, mi ha detto che lavora durante il giorno in fabbrica e la sera al bar dal lunedì alla domenica, il resto dei giorni “riposa”. Una signora su un bus mi raccontava come non ricordasse l’ultimo giorno in cui non avesse lavorato, e che ogni sera decideva dove muoversi per vendere i suoi prodotti in base a quanta gente poteva incontrare in un paesino piuttosto che l’altro, racconta che non potesse assolutamente permettersi di riposare, almeno fin quando i suoi figli non si fossero diplomati.
All’instabilità lavorativa va aggiunta una situazione socio-politica burrascosa: il narcotraffico si è intensificato parecchio negli ultimi anni e porti come Guayaquil ed Esmeraldas sono diventati punti di riferimento delle tratte del narcotraffico internazionale. In tale contesto la violenza e la corruzione sono dilagate repentinamente tra le maglie del paese, tanto che nella primavera del 2023 il Presidente è stato accusato di corruzione e, a seguito delle sue dimissioni, sono state indette elezioni straordinarie. Durante la campagna elettorale, a sole due settimane dal voto, uno dei candidati in corsa è stato assassinato in pubblica piazza poco dopo un comizio.
Nonostante tutto, a causa dell’aggravarsi delle condizioni di vita in Colombia e, specialmente, in Venezuela, durante gli ultimi dieci-quindici anni l’Ecuador si è riscoperto paese di transito e meta di numerose rotte migratorie. Le persone in mobilità, oltre a fare i conti con la precarietà diffusa nel paese, si scoprono vittime di episodi di xenofobia e razzismo. Come in molte altre regioni del mondo, quando uno stato si trova a vivere una grande ondata migratoria nel suo territorio, anche in Ecuador finisce per essere troppo semplice incolpare gli “ultimi arrivati” dei propri mali. Non è raro trovarsi a parlare con i cittadini locali che ci tengono a consigliare di stare attenti ai venezuelani, ai colombiani, ai neri! I politici locali, oltretutto, soffiano su questo fuoco e alimentano l’accanimento contro la popolazione rifugiata additandola come vagabonda, ladra, delinquente, non risparmiandosi dal promettere di usare il pugno di ferro ai confini.
Ibarra non dista troppo dalla frontiera con la Colombia e ciò ne ha fatto una città facilmente raggiungibile. È in questo contesto politico e sociale che la sede locale di FUDELA, presso la quale sto svolgendo il mio anno di Servizio Civile Universale, offre i propri servizi alla comunità rifugiata. La fondazione si occupa di vari ambiti legati al fenomeno migratorio. I loro progetti principali, tuttavia, sono rivolti all’inclusione economica e sociale per migranti adulti e inclusione scolastica per i ragazzi e bambini più piccoli. Per quanto riguarda i primi, si propone di offrire dei corsi professionalizzanti ai propri usuari accompagnati da una parte di sedute di formazione non formale, incentrati su argomenti quali il lavoro di squadra, il rispetto, la consapevolezza e l’autostima. Il tipo di approccio è integrale, non si fermano alla pura formazione ma anche al benessere dei singoli individui come persone.
Ai più giovani FUDELA dedica due progetti: Campeones Comunitarios e Education Cannot Wait. Il primo è uno spazio dedicato a bambini tra i 6 e i 16 anni, migranti e non, nel quale si lavora sui concetti di comunità, rispetto, discriminazione e questioni di genere. Il secondo, invece, è un progetto dell’UNICEF che si occupa del diritto allo studio. In particolare, attraverso il supporto all’inserimento scolastico dei bambini e ragazzi migranti e un accompagnamento durante l’anno per prevenire la descolarizzazione. Coinvolti in questo processo non sono solo gli studenti ma anche i genitori ed i professori, con la possibilità di essere seguiti da uno psicologo e da una pedagoga. Durante questi laboratori, si creano momenti unici per i ragazzi coinvolti, che spesso si trovano ad emozionarsi e sentirsi talmente coinvolti e comodi da poter approfondire a fondo le tematiche trattate.
Tutto ciò è sicuramente legato ai metodi utilizzati dalla fondazione, ossia il gioco e lo sport. Visti come mezzi didattici diventano strumenti preziosi in tali processi. Dimostrazione ne è il coinvolgimento dei beneficiari, sia adulti che bambini, che portano sempre ad un momento di riflessione profondo che non stanca mai di stupire per i contenuti che vengono esternati. Non sarò di certo io a giudicare i risultati di tale metodologia; tuttavia, scriverò ciò che Daniel (nome di fantasia), ragazzo colombiano di 20 anni al secondo anno di università ed ex beneficiario di FUDELA, alla domanda su come fosse stata la sua esperienza con la fondazione risponde: “es buena gente, gracias a ellos me dí cuenta de que quería y podía estudiar por realizar mis sueños, fué bien chevere”.