Di Anna Martinelli, Tena (Ecuador). Quando ho scoperto che avrei dovuto scrivere la testimonianza allo scoccare del sesto mese di Servizio Civile Universale ho pensato di essere fortunata, rispetto a chi magari era arrivato da due mesi e già doveva svolgere il difficile compito di raccontare alle persone un’esperienza così intensa. Senza che me ne accorgessi quel momento è arrivato anche per me, e mi rendo conto che la difficoltà del racconto permane, se non è persino aumentata. Per facilitarmi un po’ il processo, inizierò questo testo raccontando come mi sento in questo momento.
Il fatto che siano passati quasi sei mesi dalla mia partenza per Tena mi sembra semplicemente assurdo. Una cosa di cui sono davvero convinta è che qui il tempo scorre in maniera diversa rispetto a qualunque altro luogo in cui ho vissuto. È qualcosa che mi ha toccato fin dall’inizio dell’esperienza e continua tuttora a impressionarmi ogni volta che ci penso. Con la mente vado indietro nel tempo e guardando i miei ricordi come un film mi ritrovo incredula a chiedermi come sia possibile che siano già passati uno, due, tre mesi da quel momento. Il paradosso di questo tempo più rapido è che se osservo le singole giornate mi appaiono molto più ricche e piene di quanto lo fossero prima. L’abituarsi a poco a poco a vivere al ritmo del sole gioca un ruolo fondamentale in questo.
Qui a Tena, situata nell’Amazzonia ecuadoriana, le mie giornate iniziano sempre intorno alle 7, quando il sole è già sorto da un’ora. Qualche mese fa, appena arrivata dall’Italia, consideravo una sveglia alle 7 o prima come “presto”. Piano piano, osservando il contesto in cui vivo, ho iniziato a rivalutare il significato di questa parola. Ad esempio, qui i bambini entrano a scuola a quest’ora (la me bambina faticava a svegliarsi alle 7:30). Tanti comedores aprono i battenti per servire riso, pollo e bolones (una specie di arancino preparato con un impasto di platano e ripieno di formaggio). Insomma, le strade sono vive e iniziano a riempirsi di persone, cani, rumori e odori.
Tuttavia, l’elemento che più mi ha spinta a ripensare al significato di “presto” è stato il mio contatto con le comunità indigene kichwa in cui lavoriamo. In primisono stati i miei colleghi Jeyson ed Eliceo, anch’essi kichwa, che ogni giorno si svegliano tra le 4 e le 5. “Madrugar” in spagnolo significa svegliarsi all’alba, e non ho potuto fare a meno di notare l’alta frequenza con cui viene utilizzata qui. Nelle comunità è assolutamente normale madrugar, anzi, sarebbe strano il contrario.
Lo svegliarsi ancora prima che sorga il sole è anche legato al patrimonio culturale delle comunità. Un rituale comunitario che è andato un po’ perdendosi negli ultimi decenni, a causa della “contaminazione” crescente con la società della globalizzazione, è la cerimonia della guayusa upina. Essa consiste nello svegliarsi prima dell’alba, sedersi in cerchio a sorseggiare guayusa e raccontarsi i sogni appena fatti. Nonostante al giorno d’oggi si svolga principalmente in occasioni speciali e festeggiamenti, ciò non toglie il fatto che le persone continuano a svegliarsi all’alba. In qualunque posto nel mondo, la prima regola del lavorare la terra è proprio l’iniziare prima che il sole sia alto per risparmiare più energie possibili, soprattutto se si vive in un luogo caldo. All’equatore, dove il sole sorge intorno alle 6 in qualunque momento dell’anno, alzarsi più tardi è un’assurdità dal punto di vista di una persona che deve lavorare la propria finca o chakra. Soprattutto se deve anche camminare parecchio per raggiungerla.
Nel nostro tipo di società, sarebbe impensabile l’idea di fare ogni giorno un’ora o più a piedi, su sentieri ripidi, fangosi e intricati, per giungere al proprio terreno. Noi, così abituati ad avere tutto a portata di mano e facilmente raggiungibile, se provassimo per un giorno a vivere come una persona kichwa di una comunità rurale ne resteremmo sicuramente sconvolti. I piedi sono il mezzo di trasporto più comune a qualsiasi età, seguiti dagli autobus che in qualche modo riescono sempre a infilarsi anche nelle strade sterrate più impensabili. Le fincas sono quasi sempre irraggiungibili con mezzi motorizzati, e anche per questo fin dall’infanzia le persone sono abituate a muoversi con le proprie gambe per raggiungere qualunque posto. Questo significa vedere delle signore oltre la settantina muoversi leggere come farfalle lungo sentieri nella selva che mi fanno sudare e ansimare (e ovviamente sporcare di fango - come faranno loro a uscirne sempre senza una macchia?)
Se da un lato ciò affascina e incuriosisce molto la mia mente, culturalmente così lontana da questo modo di vivere, dall’altra sono consapevole che non esiste solo l'aspetto bucolico e romantico di una vita così legata al mondo naturale. Anche qui, in questa parte del pianeta all’apparenza incontaminata, esistono contraddizioni. Per coltivare piante economicamente redditizie, come il caffè e il cacao, si è sviluppata sempre più la pratica della deforestazione che crea monocultivos, impattando profondamente i terreni e la biodiversità locale. Per questo il caffè coltivato nel vivaio di Casa Bonuchelli viene consegnato ai produttori e alle produttrici solo in seguito a una formazione sulla gestione della finca basata sul metodo ancestrale dell’agro-foresteria.
Purtroppo, ciò non evita a volte brutte sorprese, quando si vedono parcelle spogliate interamente dei loro alberi per fare spazio alle piante di caffè. In questi casi, non posso fare a meno di pensare che la colpa di ciò spetti indirettamente anche a quel sistema socioeconomico che ha portato le comunità a cambiare, rendendole sempre meno autonome e autosufficienti e riducendo la varietà della loro dieta, in nome di un desiderabile profitto economico. Perciò i vari progetti portati avanti qui nell’Amazzonia ecuadoriana hanno anche l’obiettivo di restituire alle comunità quella sovranità alimentare che è andata perdendosi nel tempo. In questo "restituire" vi è nascosto il paradosso: tradizionalmente, il sistema di coltivazione chakra racchiude al suo interno una grande diversità di piante alimentari e medicinali, che hanno sempre soddisfatto perfettamente i bisogni delle persone. L’autonomia perduta ha portato a un impoverimento della dieta, quasi sempre ridotta a yuca e derivati, come la chicha, platano, fagioli e riso.
Viene spontanea qui la domanda: “Perché non coltivano altro?” Credo che la complessa risposta richieda anche una riflessione sul privilegio, in quanto europei, importatori e grandi consumatori di prodotti sudamericani, come il cacao e il caffè; sul perché chi fatica per coltivare cibo, come tante persone di queste comunità, debba nutrirsi peggio di chi semplicemente lo compra. Il sistema economico in cui ci troviamo, imposto da chi ne trae profitto e rinforzatosi sempre più nel tempo, ha portato a cambiamenti radicali nello stile di vita delle comunità rurali, che probabilmente non comprenderemmo nemmeno abitandovi per anni.
Vivo qui da ormai sei mesi, e mi sento di avere appena iniziato a capire un’infinitesima parte di questo conteso così lontano, geograficamente e metaforicamente, da tutto ciò che mi ha plasmata e resa quella che sono. Proprio perché è difficile riuscire a conoscere veramente un luogo a noi estraneo è importante non proporre soluzioni semplicistiche e superficiali che banalizzano, non affrontano né rispettano le complessità del caso. Soprattutto se non si conoscono le persone che lo vivono e le loro storie. Se questi mesi mi hanno insegnato qualcosa è che nella vita reale, a contatto con le persone, anche la migliore delle teorie può rivelarsi fallimentare se non si considerano le tante sfaccettature che caratterizzano un contesto.
Riavvolgo nella mente il nastro di questo tempo passato qui. Penso alle donne, agli uomini, giovani e vecchi, che madrugan per andare alla propria finca coltivata a caffè, cacao e a tante altre piante commestibili, ogni giorno, perché l’hanno sempre fatto. Penso alla signora Jacinta, una chakramama dall’età indecifrabile conosciuta poco dopo il mio arrivo in Ecuador, che porta legata sulla fronte la pesante canasta piena di cacao e mi regala platano e canna da zucchero da succhiare. Penso a tutte le persone che ho incontrato in questi mesi di Servizio Civile Universale, che per scelta o per mancanza di alternative lavorano la terra fertile e brulicante di vita dell’Amazzonia. Il tempo allora sembra sospendersi e smette di correre, diventa un tempo di attesa, di pazienza, di cura, di resilienza. È il tempo della terra.