… Oh, I get by with a little help from my friends
Mm, I get high with a little help from my friends
Mm, gonna try with a little help from my friends.
-The Beatles
Di Giulia Zoratti, Medellín (Colombia). “Ma come, vai sola? Ma perché vuoi andare sola? Aspetta, ti accompagno.” Questa frase ha corredato tutti i miei viaggi in America Latina, la mia quotidianità a Medellín tanto la prima, quanto la seconda, come la terza volta (ora) che sono stata qui. E io che no, che no, che no, che volevo andare sola, che non volevo aspettare, che volevo i miei spazi, che volevo rivendicare il mio diritto ad andare sola in quanto donna autonoma ed indipendente. Solo la settimana scorsa ho davvero capito, ho davvero sentito, perché sia così importante, qui, fare gruppo, hacer combo, stare insieme e non lasciare nessuna sola. È da questa realizzazione che sono sorte le riflessioni sui massimi sistemi del mondo che voglio qui condividere, condite da ampie digressioni. De hecho, sono ampie digressioni condite dal succo della questione.
Giovedì scorso, il 30 novembre, era l’alborada. In Colombia dicembre è mese di festa grande, di parranda senza limiti, alcol e amici. Mi ha sempre sorpresa il fatto che Natale non si passa necessariamente in famiglia, ma che, más bien, si vada a ballare fino all’alba, accalcandosi in feste in strada che coinvolgono quartieri interi. La notte del 30 novembre, si celebra l’arrivo di questo dicembre atteso tutto l’anno, questa festa continua, queste luci ed addobbi eccentrici ed esorbitanti: è una notte di polvora, fuochi d’artificio e botti riempiono il cielo, fanno sobbalzare i più coraggiosi, spaventano gli animali e incantano i bambini. È una grande festa che celebra l’arrivo del mese di festa, ebbene sì, e Medellín è riconosciuta in tutta la Colombia come la città con la migliore alborada.
Giovedì scorso, il 30 novembre, notte dell’alborada, con il semillero di bullerengue abbiamo partecipato ad un’alborada sin polvora, una celebrazione del dicembre imminente senza usare fuochi d’artificio. Una netta minoranza della popolazione, infatti, contesta l’uso massivo di fuochi d’artificio: primo perché inquinano, secondo perché ogni anno fuochi mal sparati causano incendi e morti, terzo perché spaventano gli animali e hanno un impatto negativo soprattutto sulla diversa e abbondante fauna di uccelli della città. Come gruppo abbiamo deciso di appoggiare questa iniziativa, suonando, cantando e ballando nel teatro al aire libre La Batea di Robledo, un quartiere che si trova nella zona nord-occidentale della città, bieeeeeen arriba.
Urge qui una breve digressione riguardo al bullerengue. Il bullerengue è un genere musicale della tradizione afro-colombiana della costa atlantica, soprattutto dell’Urabá Antioqueño (Turbo, Apartadó, San Juan, Necoclí), della zona di Puerto Escondido, del departamento de Córdoba, un pelín più a est, e dell’interno della suddetta costa, nella zona di Maria La Baja e San Basilio de Palenque, il primo pueblo fondato da schiavi fuggiti dalle piantagioni, il luogo cui Gabriel García Márquez si è ispirato per Macondo di Cent’anni di solitudine. Ogni regione, città e paesino ha un suo modo di suonare e ballare. Il bullerengue si divide in tre aires, tre ritmi: sentado, più lento e malinconico, usato inizialmente per le celebrazioni funebri; fandango, un ritmo festoso e ballereccio; e la chalupa, ritmo molto rapido ed incalzante.
Gli strumenti musicali imprescindibili sono appena due, il tambor alegre (o tambor hembra) e il llamador (o tambor macho) che tiene il ritmo, il pulso, della canzone. O meglio, tre, essendo il battito delle mani del coro un altro elemento indispensabile. Alla cantadora o al cantador risponde appunto il coro, ripetitivo e stregante, e alle volte ci sono pure un paio di maracas ad accompagnare il tempo. Le canzoni parlano della vita quotidiana della costa, del cibo, della musica in sé, ma anche di temi più impegnativi e dolorosi, come il desplazamiento che molti dei maestri e delle maestre della tradizione hanno sofferto a causa della Violenza, d’amore e di lotte. Potrei continuare a scrivere di bullerengue per pagine e pagine, ma preferisco tornare al succo della questione, al sommovimento dell’anima che si è creato in me giovedì 30 novembre, notte dell’alborada.
La nostra presentazione ha lottato con il frastuono dei fuochi fino a dopo le 2 della mattina; dopo aver finito, felici e contente, abbiamo iniziato ad occuparci di capire come scendere da Robledo che sta, per l’appunto, bieeeeeeen arriba. Da “occuparci” presto abbiamo iniziato a “preoccuparci”: le mille applicazioni alternative ai taxi come Uber, inDrive, DiDi e picap sparavano prezzi esorbitanti, un po’ perché Robledo è un po’ come la Sierra, lontano da tutto, un po’ perché in notte di festa tutti escono e tutti gli autisti aumentano i prezzi. Io ero andata lì fresca come una rosa, senza troppi soldi in tasca e senza assolutamente contemplare l’ipotesi che sarebbe potuto essere difficile tornare a casa; gli altri e le altre, ovviamente già consapevoli delle dinamiche metropolitane, affrontavano la situazione come sempre: facendo gruppo.
Quelli e quelle che andavano più o meno nella stessa direzione si sono strizzati in 5 in una macchina che aveva finalmente accettato il servizio dopo un’ora di attesa; chi era venuto in moto si è caricato in sella altre due persone e le ha scarrozzate fino a casa; in 6 sono rimasti a dormire a casa di un’amica che vive in centro perché non c’era assolutamente modo di tornare fino alla loro. Per quanto mi riguarda, un gruppetto si è accollato di fare un giro più largo per lasciarmi in un posto da cui il passaggio fino a casa mi sarebbe costato abbastanza poco da permettermi di pagarlo con i pesos che avevo. In pochissimi e pochissime se ne sono andati prima di essere certi che tutte avessero un posto sicuro dove dormire.
En fin. Detto, ridetto e stradetto: l’unione fa la forza, però sento che qui ha un significato più profondo, più viscerale, perché la possibilità di restare varada, di restare embalada è molto più concreta. Per dire, se a Bologna resti fuori fino a tardi, con la bici torni serenamente all’ovile all’ora che ti pare, c’è probabilmente un autobus notturno che ti lascia sotto la porta di casa o nei suoi paraggi, o, alle brutte, ti tocca camminare un’oretta al massimo se proprio stavi all’Estragon, ma non c’è da temere al camminare da sola e senza grandi patemi prima o poi arrivi. Medellín è un contesto più complesso, anche solo per le sue dimensioni, e dove camminare fino a casa di notte non ti fa sentire propriamente tranquilla, anzi. Lo definirei, come un po’ tutte le metropoli, un contesto in qualche modo ostile alla vita del singolo individuo. Ed è per questo che sì o sì, qui, c’è da fare gruppo: perché io, sola, a casa non sarei riuscita a tornare, ma con l’aiuto delle mie amiche sì. E il mio caso è, come al solito, privilegiato, perché sono stata polla io che non mi sono portata dietro abbastanza soldi, ma chi i soldi per pagarsi un passaggio proprio non ce li ha non ha altre opzioni se non fidarsi ed affidarsi agli altri, per prendersene cura a sua volta quando saranno loro ad averne bisogno.
Questo prendersi cura degli altri e delle altre e sapere di poter contare su di loro se e quando ne avrai bisogno, è per me il frutto più dolce di un contesto così denso.