di Serena Iacopino, Medellín (Colombia). Scrivo questa testimonianza dalla città di Medellín in Colombia, luogo in cui sto svolgendo il mio anno di servizio con i Corpi Civili di Pace, in un progetto di rafforzamento e inclusione sociale nella Comuna 8 di Medellin, “Villa Hermosa”, una delle zone più periferiche e povere che si trova nella zona centro orientale della città. Noi volontari viviamo e lavoriamo nel barrio La Sierra, tristemente noto come uno dei quartieri più colpiti dal conflitto armato e dalla violenza. Il quartiere si trova al confine con la zona rurale della città, come a rappresentare una frontiera invisibile, ed è composto da un agglomerato di case di mattoni e tetti in lamiera. Le strade in salita e le scalinate infinite sembrano voler metterti alla prova, così come spesso la musica incessante. La Sierra è forse il barrio della città che gode della peggiore pubblicità, tanto che ogni persona esterna al quartiere con cui ci troviamo a parlare sgrana gli occhi quando gli diciamo dove viviamo, i tassisti stessi ci rifiutano spesso un passaggio a casa, per paura di entrare in una zona che continua a fare paura.
Appena arrivata in questo luogo che sarebbe stato la mia nuova casa per i prossimi mesi, la mia prima reazione è stata di sgomento; il barrio è fatto di una vita ed una vitalità che non avevo mai visto: i bambini sempre per strada a giocare, le persone che popolano le strade condividendo la vita con i vicini, le moto che si muovono su e giù per le vie e i bus che riescono a muoversi agilmente in strade strette e ripide. Non sapevo cosa aspettarmi, la percezione generale sul barrio è che è un luogo problematico, a causa della grande violenza di cui è stato protagonista tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000; una parte di me si aspettava, quindi, sguardi ostili e anche una certa chiusura. Ho velocemente notato, però, che oggi quella violenza, pur non essendo sparita, non è più alla portata dello sguardo di tutti e il quartiere sembra pronto a voltare pagina. Negli abitanti non c’è ostilità, ma curiosità ed accoglienza ed è abitudine incontrare per quelle scalinate infinite qualcuno che ti fermi per chiederti con un sorriso genuino «¿cómo está mi niña?».
È difficile descrivere i primi due mesi a La Sierra, il tempo sembra aver accelerato il suo naturale decorso e i giorni e le settimane sono volati via senza darci il tempo di fare i conti con quello che abbiamo vissuto e continuiamo a vivere ogni giorno. Sono stati due mesi emotivamente impegnativi, fatti di momenti di difficoltà e di meraviglia, in cui mi è capitato di dubitare del mio lavoro qui: “sto facendo bene?”, “come posso far sì che le persone si fidino di me?”. Altre volte ho sentito fortissimo il limite linguistico o culturale del non riuscire a comunicare tutto ciò che avrei voluto dire, “sarà appropriato fare questa domanda?”. Ma, ancora una volta, le persone del barrio non hanno vergogna della loro storia e del loro dolore e parlano liberamente di qualsiasi argomento, anche il più scomodo, insegnandoci delle lezioni preziose.
Infine, quello che mi sta insegnando la Colombia è la pazienza e la fiducia nel futuro e così settimana dopo settimana mi trovo a scoprire nuovi dettagli e scorci di questo meraviglioso e accogliente barrio che è La Sierra, probabilmente perché la paura iniziale di sbagliare sta lentamente lasciando il posto ad una nuova sicurezza e curiosità nei confronti dei prossimi mesi. Mi capita sempre più spesso di essere abbracciata per strada da qualche bimbo che frequenta il Centro Juvenil, che frettolosamente mi dice “hola profe”, per poi correre nuovamente a giocare per strada. Mi trovo ad organizzare degli incontri con e per un gruppo di donne con grande entusiasmo ed emozione. Senza accorgermene, mi ritrovo a pensare che in questi primi due mesi il mio sgomento iniziale si è trasformato in fascinazione e che questo barrio pieno di storia sta diventando sempre più sinonimo di casa.