Di Matteo Maritano. Sono seduto in terrazza e osservo l’intero skyline di Medellin da una posizione privilegiata. Sì, proprio così, perché La Sierra, il barrio popolare in cui presto servizio, è abbarbicata nel punto più alto del versante orientale che cinge la seconda città colombiana per popolazione. Di fronte a questa immagine suggestiva, mi trovo a fare un bilancio di questo mio primo mese di progetto dei Corpi Civili di Pace, una sperimentazione del Dipartimento per le Politiche Giovanili e il Servizio Civile Universale, sotto la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Un mese è come un giro di boa: se da un lato mi sembra di non essere ancora entrato nel vivo del progetto, dall’altro ho come la sensazione di vivere alla Sierra da molto più tempo, dal grado di affetto e di accoglienza che quotidianamente ricevo dai suoi abitanti.
Durante le settimane di formazione a Roma ci siamo a lungo interrogati sull’identità di questo contingente nonviolento, composto da ragazzi con le Birkenstock ai piedi e una speciale luce nello sguardo. Dopo tanto arrovellarci, la conclusione è stata un grande punto interrogativo e, ancora oggi, mi risulta difficile scorgere la differenza con l’esperienza di Servizio Civile all’estero. Tuttavia, quando una mattina a La Sierra vieni svegliato dal rumore delle pale degli elicotteri che sorvolano il barrio e, appena uscito di casa, ti trovi di fronte la polizia impegnata in un’operazione di arresto dei boss del quartiere, capisci il senso della tua presenza qui. Quando vedi le serrande dei negozi abbassate in segno di lutto per la morte di uno dei capibanda e ascolti i ragazzini inveire contro le operazioni della polizia, diventa evidente come le azioni di guerriglia, che hanno travagliato La Sierra negli scorsi decenni, abbiano aperto ferite non ancora del tutto sanate. E nonostante gli sforzi del progetto “La Sierra es otro cuento”, per cambiare lo storytelling dominante che racconta il quartiere come un posto pericoloso e poco raccomandabile, il cammino per arrivare ad una reale pacificazione sembra essere ancora lungo.
Allora si intuisce perché l’ENGIM Internazionale abbia sentito la necessità di inviare due volontari CCP a Medellin per lavorare al nuovo centro giovanile del barrio, in collaborazione con la parrocchia di Santa Maria della Sierra, guidata dai Giuseppini padre Carmelo e padre Giuseppe. È importante lavorare a livello educativo con i ragazzi del quartiere, nel tentativo di offrire loro un’alternativa alla violenza che hanno sperimentato nel crescere in questo contesto difficile.
Vivere alla Sierra, però, non è soltanto essere testimoni di azioni di guerriglia e della percezione diffusa di uno Stato assente per i suoi abitanti. Signore che friggono empanadas lungo la strada densa di graffiti coloratissimi; paisas che sorseggiano caffè e ti salutano con un gesto della mano; bambini in bicicletta che si attaccano ai pulmini che risalgono l’unica strada che attraversa il barrio, per poi rilanciarsi in una folle discesa: sono solo alcune delle impagabili immagini che La Sierra mi regala ogni giorno. Per non parlare dell’affetto disarmante che in pochi giorni gli abitanti del barrio hanno saputo riversare su di me e Floriana, la mia compagna di progetto.
Così, mentre risaliamo una delle innumerevoli ed impervie scale per rincasare al termine della lunga giornata, è un piacere fermarsi ad ogni gradino per scambiare due parole con le vecchiette del barrio o per scherzare con i bambini che trascorrono in strada i lunghi pomeriggi dopo la scuola. Tutti hanno un sorriso per te, a parte le frotte di cani erranti che non sembrano mai troppo amichevoli quando incroci il loro cammino.
Ho fiducia che questo sarà un anno intenso e di grandi sfide personali e progettuali. Si respira un grande entusiasmo rispetto a quello che il centro giovanile potrà rappresentare per il barrio. Ho come la sensazione di essere arrivato al momento giusto nel posto giusto, ed è affascinante sapere che il centro vedrà la sua nascita proprio con noi qua presenti. Il ché è fonte di grande stimolo ma al contempo mi dà un forte senso di responsabilità, sperando di rivelarmi all’altezza delle aspettative in noi riposte. Dunque, non vedo l’ora che termini questa fase di preparazione degli spazi, di capire più nello specifico di cosa andremo ad occuparci e di entrare nel vivo del servizio.
Mentre, immancabilmente alle sei in punto, osservo il sole tramontare sulla distesa di case in mattone col tetto in lamiera, rifletto su quanto sia paradossale il nostro trovarci qui. Infatti, da un lato io e gli altri ottanta volontari CCP veniamo formati, pagati e inviati in giro per il mondo dal nostro governo, per realizzare progetti di promozione della pace e dei diritti umani. Peccato che si tratti di quello stesso Governo che, nei giorni scorsi, ha approvato con gran clamore il decreto sicurezza bis, che rappresenta solo l’ultimo (tragico) atto di una serie di provvedimenti volti a colpire l’attività delle ONG, e più in generale, tutte quelle manifestazioni di umanità e solidarietà tra popoli e culture sul suolo italiano.
Ammetto che questa enorme contraddizione mi genera un certo “prurito”. Però, al contempo, mi sento onorato del ruolo che ci è stato affidato e spero che nel nostro piccolo possiamo contribuire, seppur a distanza, ad aprire una crepa nella triste narrazione “mainstream” che sta dilagando nel nostro Paese. In attesa di capire per davvero quale sia la nostra identità, noi volontari CCP rimaniamo dei personaggi in cerca d’autore. Ma mi piace pensarci come piccoli semi di cambiamento alla ricerca di quegli sprazzi di bellezza che si nascondono ovunque, anche nei quartieri più marginali e nei villaggi più remoti.