Di Emanuele Nini, Montero (Bolivia). Sono passati 10 mesi dalla partenza per la Bolivia e sto cominciando a realizzare che il grosso è passato. Non manca molto al rientro a casa e, tra me e me, comincio a tirare le somme. Impossibile non ricordare della folle scelta che feci poco più di anno fa: accettare di andare, per un anno, a fare un lavoro non molto definito, in un luogo sconosciuto, con persone mai viste prima. Perché di fatto questo significa accettare di partire per un progetto di Servizio Civile Universale all’estero. Se ci ripenso, una follia. È una scelta che non so se rifarei, ma di cui sono tutt’ora orgoglioso.
Questo (quasi) anno di Bolivia è stato difficile. Avventuroso, divertente, avvincente, entusiasmante… senz’altro è stato tutto questo in momenti diversi delle tante avventure vissute. Ma se dovessero chiedermi di descrivere in una parola questa esperienza non sarebbe nessuna di queste. Tutto dipende da come si incastrano le infinite variabili (di caratteristiche personali e del contesto) che ogni esperienza di Servizio Civile comprende, non mi sento quindi di poter dire che possa essere universalmente lo stesso per tutti.
La Bolivia è rock'n'roll. All’interno di questo “piccolo” paese si passa dall’asfissiante caldo-umido del dipartimento di Santa Cruz, ai freddi e secchi quattromila metri di La Paz. Ma le difficoltà climatiche rappresentano solo una piccola parte della complessità di una esperienza di questo tipo: c’è il rapporto con gli altri volontari, persone che non scegli ma con cui ti ritrovi in un profondo rapporto di vicinanza e condivisione. Ci sono i problemi di salute: batteri e virus, nel nostro caso tropicali, vivendo nella zona calda della Bolivia, cui non siamo abituati e che ci hanno accompagnato, specialmente con problemi intestinali, in tutta la nostra permanenza. C’è il contesto: nel nostro caso una piccola cittadina, decisamente poco stimolante per chi viene, come me, da una grande città. Montero è stata costruita ai piedi di grosse industrie di canna da zucchero per ospitare principalmente i lavoratori delle stesse. Non ha una grande storia e non ha una offerta di luoghi aggregativi o ricreativi come altre grandi città boliviane.
Ciò che più mi ha colpito di questi mesi passati è quanto le diverse difficoltà vissute in questi mesi mi abbiano cambiato. Osservare come ho affrontato e vissuto queste nuove e imprevedibili complessità e come queste mi abbiano fatto crescere è come, finalmente, approcciarsi a raccogliere i frutti da una pianta che è stata curata, con fatica, per diverso tempo.
Questa esperienza mi ha permesso di apprezzare cose che prima davo per scontate. Come dicevo, abbiamo avuto a che fare con qualche problemino di salute abbastanza fastidioso. Ammalarsi e avere bisogno di cure in un contesto così complesso non è facile ed è stato fonte di preoccupazioni. Sentirmi fragile mi ha permesso di rivalutare la fortuna dell’essere in salute e di poter accedere alle cure, che a casa davo per scontato. Qui in Bolivia, per molte persone, soprattutto per quelle che non possono permettersi di sostenere le spese delle cure, non è così, a meno che non si sia disposti ad indebitarsi.
Questa esperienza mi ha permesso di rallentare e di rivalutare il mio rapporto col tempo. In Bolivia non è raro darsi un appuntamento di lavoro e vedere apparire le persone dopo 45 minuti dall’orario concordato, sorridendo come se nulla fosse. E senza alcuna scusa per il loro ritardo, iniziare a lavorare. Imparare ad accettare e a fare i conti con quei 45 minuti, quel tempo vuoto con cui quotidianamente ed inevitabilmente devi fare i conti, possibilmente senza senza innervosirti, è stato per me un grande traguardo. In Bolivia non è strano vedere persone sedute su un tronco a masticare foglie coca per tutto il pomeriggio. “Che perditempo questa gente” mi dicevo inizialmente. Ora, a distanza di mesi, comincio a chiedermi se invece fossi io a perdere il mio tempo correndo come un matto dal lunedì alla domenica tra impegni lavorativi, di studio o di svago. Rallentare mi ha permesso di allenarmi ad osservare, ad ascoltare, a contemplare, a stare... forse, a vivere.
Questa esperienza mi ha permesso di mettermi in gioco nel rapporto con altre persone grazie al rapporto con gli altri volontari, con i colleghi e con le conoscenze fatte in loco. Il fatto di trovarmi “costretto” a condividere spazi e momenti con persone così diverse da me, che in altri contesti probabilmente non mi sarei scelto, mi sta permettendo di conoscermi meglio attraverso relazioni diverse, aprendo la cerchia di persone con cui sono solito confrontarmi. La sfida è stata dettata dalla necessità di trovare nuove strategie comunicative e la ricerca di nuovi compromessi che potessero permettere una convivenza fruttuosa e serena con persone così diverse. Cercare di comprendere i bisogni, le necessità e le caratteristiche di una persona molto differente da me, cosa che difficilmente sarebbe successa rimanendo a casa, è stato senz’altro un aspetto impegnativo.
Questa esperienza mi ha permesso di capire cosa per me conta. Attraverso la mancanza, in alcuni momenti dolorosa, di cose e persone cui ero abituato, sto prendendo consapevolezza di ciò che davvero è importante per il mio benessere. Semplicemente perché mi manca, nel quotidiano. Molte cose che prima davo per scontate, ora non ci sono. Il fatto di sentire la mancanza, anche di cose di cui non me lo sarei aspettato, mi informa su ciò che per me ha importanza.
Questa esperienza mi ha permesso di osservarmi da fuori. Mi ha dato l’opportunità di alzare la testa dopo tanti anni passati a pensare solamente dove mettere il passo successivo, a fare, produrre, a raggiungere obiettivi di studio e lavorativi. Inizialmente non è stato facile, anzi, questo processo si è portato con sé diverse preoccupazioni, ma a distanza di mesi comincio a vederne i benefici. Posso dire che questa “pausa” dalla quotidianità, dalla normalità frenetica della mia vita precedente mi abbia costretto a vedermi dall’alto, a mettere in discussione i dogmi che mi hanno accompagnato in questi anni... a riflettere sul passato, sul presente e sulla direzione che voglio dare al mio futuro, in modo consapevole e più in linea con ciò che sento.
Questa difficile esperienza, a cui sono profondamente grato, mi sta facendo crescere.