Di Erica, Ludovica e Sebastiano. Quando è iniziato il nostro anno di Servizio Civile al “Ceipar”, non avremmo mai pensato che, a distanza di qualche mese, avremmo passato la Settimana Santa in missione con delle suore. Abbiamo quindi accolto con curiosità l’invito di suor Serafina a “salpare” alla volta del Valle del Sade, senza però sapere cosa aspettarci da questa esperienza.
Alle sei di una piovosa giornata andina, abbiamo lasciato Quito, la smisurata e caotica capitale dell’Ecuador, caratterizzata dai suoi negozi, dai ristoranti, dai clacson insistenti delle auto che sfrecciano in ogni direzione come le mosche; riconoscibile dal ticchettio dei tacchi delle signore, dirette verso gli uffici dei grandi grattacieli che imponenti dominano il cielo e si scontrano con la realtà più povera del sud della metropoli, che si distingue invece per le sue piccole casette e baracche ammassate una di fianco/sopra/sotto/dentro all’altra; piena di “tienditas”, mercati e bancarelle più o meno improvvisate, di mille venditori ambulanti.
Arrivati a Quinindé, siamo saliti su una sorta di camionetta e, per altre due ore, il nostro viaggio è proseguito in mezzo alla selva subtropicale: non più cemento, ma solo sassi, terriccio, fango e buche, intorno a noi solo la folta foresta, piena di palme da olio, alberi da cocco, e arbusti. Poi un fiume, che separa il Valle del Sade dal resto del mondo. Ad aspettarci sulla riva, una specie di piattaforma galleggiante che ci ha permesso di raggiungere l’altra sponda e, finalmente, il Valle.
Un “pueblo” ubicato nell’entroterra della regione di Esmeraldas, ma di fatto dimenticato nelle mappe, “abbandonato dal mondo e da Dio”, con un solo centro di salute che il fine settimana è chiuso, e neanche un prete che vada a dire messa. Fortunatamente ci sono le “hermanitas”, ad impegnarsi per accompagnare gli abitanti del villaggio nella loro vita religiosa.
La gioia con cui le persone ci hanno accolto è stata davvero grande, tutte pronte, com’erano, ad ospitarci a pranzo o a cena, e ad accompagnarci nelle attività svolte nei vari villaggi del circondario: dalle funzioni religiose, agli spostamenti con mezzi di fortuna, fino alle partite a “quemada”, o a ruba bandiera con i bambini. Si è creato un clima familiare e sereno, e anche per questo è stato bello condividere con la comunità la gioia di celebrare una festa per loro tanto importante.
Passare questi pochi giorni in una realtà totalmente altra rispetto a quella “quiteña”, inoltre, ha suscitato in noi diverse domande. Soprattutto, ci ha permesso di riflettere sulle differenze lampanti tra la situazione degli abitanti del Valle, che pure per certi aspetti è disagiata, e quella di chi vive nei quartieri poveri di Quito. Inutile dire che la povertà, nelle grandi città, si trasforma spesso in miseria, degradante e disumanizzante. Al Valle, nella semplicità della vita di campagna, abbiamo trovato nelle persone una serenità che nell’ambiente dove lavoriamo è rarissima: la si coglieva prima di tutto nei bambini, semplici e gioiosi, mai aggressivi o inquieti come i ragazzi con cui siamo abituati ad avere a che fare. E così le loro famiglie, che ci sono apparse molto più unite, al loro interno e nella vita comunitaria, ben diverse dalle realtà disgregate e violente in cui si trovano a crescere i nostri ragazzi.
Certo, non ci troviamo “fuori dal mondo”, la globalizzazione è arrivata anche qua, coi prodotti Nestlè, la Coca-Cola, i profili Facebook e gli smartphone, però abbiamo avuto la percezione che – per questi luoghi – il parziale isolamento, per quanto da una parte costituisca un disagio, sia dall’altra un’ancora di salvezza dalla “fiumana del progresso”, che permette alla gente, per quanto povera di risorse e servizi, di restare se stessa e di non perdere umanità.
Ci chiediamo mai se la globalizzazione e il progresso ci stiano portando nella giusta direzione? Se questa ricerca del nuovo sia la scelta migliore possibile? Forse dietro a tante vittorie si nascondono sconfitte ben più grandi, che privano le persone di quella dignità a cui ogni essere umano dovrebbe aver diritto.
Ecco dunque che questa esperienza, bella ed intensa, ci ha riaccompagnati a Quito con ancora più consapevolezza dell’importanza di operare nel contesto di Yaguachi, dove i bambini hanno maggiore bisogno di affetto e cura, e di scoprire in se stessi quell’umanità, che l’ingiustizia e la violenza del mondo rischiano di distruggere.