Per i nostri connazionali che vivono e lavorano in Brasile le proteste non hanno offuscato l’amore per la Seleção ma ora “panem et circenses” non bastano più a calmare gli animi e il malcontento cresce soprattutto tra gli ex poveri: vogliono più diritti e non sono più facilmente controllabili: “Chi andrà a votare, ad ottobre, non si farà più incantare dalla promessa di una strada asfaltata”
di Roberta Rizzo13 giugno 2014. In questo mondiale il Brasile è costretto a vincere una battaglia doppia, sul campo e fuori. Da un lato perché qui la Seleção e il calcio sono una religione. Quando i verdeoro giocano si fermano gli uffici, i negozi, i ristoranti abbassano le saracinesche e si va a casa a guardare la partita. Perdere equivarrebbe a un’umiliazione nazionale, un’onta difficile da cancellare. Dall’altro soprattutto per dimostrare al mondo che questo è davvero il Paese dei sogni, gli Stati Uniti del Sudamerica, con un ritmo di crescita che in 6 anni ha visto raddoppiare il Pil trasformando il Brasile nella settima economia mondiale.
"Panem et circenses" non bastano più
Negli anni in cui si costruivano gli stadi in vista della Coppa del Mondo, 36 milioni di persone (su 200 milioni di abitanti) sono uscite dalla povertà. Molti di loro hanno assaggiato per la prima volta le infinite possibilità di una società dei consumi ma al contempo stanno maturando una coscienza sociale e politica e a cui il “pane et circenses” non basta più. Chiedono più diritti: ospedali funzionanti, mezzi pubblici, scuole e istruzione. Accanto a loro c’è una classe media che sente di aver pagato più di tutti i costi di questi grandi eventi. Con le tassazioni e l’aumento dei beni di prima necessità, in un momento in cui il Pil per la prima volta ristagna, ci si chiede perchè il governo è arrivato a spendere 8 miliardi di dollari in opere che non serviranno più al Paese una volta che l’arbitro avrà fischiato la fine e i riflettori si saranno spenti.
"I brasiliani sono scontenti"
Molti sono gli italiani che hanno scelto il Brasile per vivere. Andrea Valterza, 39 anni. Torinese nato nel Monferrato. Per dieci anni ha lavorato per diverse ong (Uai Brasil, Engim Internazionale Focsiv). Da tre lavora in Azimut Yachts, una start-up torinese con sede a Santa Caterina, leader mondiale nella produzione di yacht di lusso. “Il Brasile è cresciuto moltissimo in 10 anni, ma su basi spesso effimere (accesso al credito, assistenzialismo). Questo ha consentito a una fascia enorme di esclusi di entrare nel gruppo di chi può comprare un’auto e un cellulare (a rate) e al Brasile di attrarre investimenti esteri e crescere in maniera ipertrofica. L’idea che mi sono fatto vivendo qui è che oggi, però, i brasiliani sono scontenti su tutta la linea: da un lato chi stava male e ora sta meglio, vuole di più e subito: avere uno smartphone non basta più. Chi invece stava già bene non sopporta l’assistenzialismo ed è stufa della politica della Rousseff accusata di aiutare solo i poveri”. Per la prima volta si gioca un Mondiale in un paese emergente dove sembra che la coscienza sociale sia ormai matura. “Gli sperperi della Copa sono stati talmente tanto pubblicizzati e descritti nelle loro intime e imbarazzanti dimensioni faraoniche che fanno da miccia al malcontento laddove la coscienza della società distingue cosa è giusto e cosa no, cosa è un diritto e cosa non lo è. L’informazione, che qui è piuttosto libera, continua a denunciare scandali politici e impunità in un Paese che ha nel DNA la corruzione (loro stessi lo chiamano il jeitinho cioè ‘abilità’...). Giornali come O Globo non hanno nascosto le critiche al governo per i miliardi spesi che hanno superato i costi degli ultimi tre mondiali messi insieme: “basta vedere dove sono stati costruiti i 12 stadi nuovi di zecca: parecchi impianti non appartengono nemmeno a squadre di serie A”.
"Chi voterà non si farà incantare da una strada asfaltata"
Fabrizio Testi, 31 anni, ex volontario del Focsiv in questo paese ha trovato una compagna e una prospettiva di vita. “C’è una grande percentuale di persone che questo Mondiale non lo volevano per tutti i soldi spesi sulle infrastrutture. Qualcosa è stato fatto, penso agli aeroporti e alle strade ma alle città mancano i servizi essenziali: ospedali, trasporti, educazione. La politica del governo è stata sempre quella di conquistare la fascia povera della popolazione: pensate che in Brasile il voto non è un diritto o un dovere ma un obbligo. Qui tutti devono per legge andare a votare, anche chi non ha una coscienza politica, per cui è facile comprare il loro voto (ad ottobre ci saranno le presidenziali, ndr) magari asfaltando una strada della favelas in cui vivono”. Con le contestazioni, però, diversi ceti sociali sono scesi in piazza contro la corruzione, altra piaga del Paese. “La mia compagna, un’insegnante brasiliana, per tre mesi consecutivi non ha ricevuto lo stipendio perché il prefetto della scuola in cui lavora si è mangiato tutti i soldi con cui avrebbe dovuto pagare gli insegnanti. La classa media qui vorrebbe mandare a casa Rousseff. E anche la povera gente, ormai, non sembra più così ‘controllabile’ grazie ad una strada asfaltata. La rivolta del 2013 ha smosso delle acque a livello sociale. D’ora in poi sarà difficile tornare indietro”.
(Fonte: Rainews.it)