
In quest’ambito, Lucio Filipponi, appena tornato in Italia dopo una lunga esperienza come cooperante in Argentina per l’ENGIM, ha presentato ai giovani la testimonianza che riportiamo di seguito.
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Una volta, tanto tempo fa, conobbi un seminarista giuseppino. Doveva sostituire l'accompagnatore nel nostro piccolo gruppo di studenti cristiani. Lo avevamo contattato tramite altre persone e nessuno di noi lo aveva mai visto prima. Non volevamo scioglierci come gruppo, volevamo crescere insieme. E se l'unica alternativa era quella di affidarci ad un frate di un ordine religioso di cui non avevamo mai sentito parlare, l'avremmo accettata volentieri. Giuseppino era una parola estranea al nostro vocabolario e, fino ad allora, Murialdo era solo il nome di un quartiere della nostra città, Viterbo, piuttosto che il fondatore di un ordine religioso.
Il comitato di benvenuto era composto da quattro o cinque di noi, che aspettavano in una piazzetta del centro storico e si immaginavano un ragazzo con chierica, sandali e saio, stile frate francescano. Avevamo appena 16 anni e la nostra ignoranza era compensata dalla fantasia. Mentre aspettavamo, fumavamo e facevamo battute sul “fratino”, si avvicinò un ragazzo di qualche anno più di noi. Era vestito come noi, jeans e maglietta, aveva capelli corti e portava scarpe da ginnastica. “Forse aspettate me”, ci disse. In quell'istante iniziò il mio viaggio in Argentina.
Circa quindici anni dopo, pensavo proprio a questo episodio della mia vita mentre l'aereo partito da Roma, dopo quattordici interminabili ore di viaggio, toccava il suolo giunto a destinazione: Buenos Aires. Avevo l'incarico di avviare e coordinare un progetto che riguardava la costruzione e l'avvio di una fattoria educativa per ragazzi in condizioni di vulnerabilità in una delle periferie più degradate di questa metropoli. Collaboravo di nuovo, dopo tanti anni, con i Giuseppini del Murialdo e con l'ENGIM (Ente Nazionale dei Giuseppini del Murialdo), che è l'organizzazione senza fini di lucro della Congregazione, che accompagna e sostiene le missioni e le comunità giuseppine nei Paesi in via di sviluppo con diverse attività come quelle di sostegno a distanza o progetti di formazione e cooperazione allo sviluppo.
“Siamo in missione per conto di Dio”, scherzavamo con il mio collega ripetendo una nota battuta dei Blues Brothers mentre dall'aeroporto ci dirigevamo alla comunità di Villa Soldati, nella città di Buenos Aires. Stavo per iniziare un lavoro nuovo e difficile, lontano da mia moglie, dagli amici, dai parenti, da luoghi cari e familiari, dovendo imparare, ed in fretta, una lingua diversa, ma quel “siamo in missione per conto di Dio” mi faceva sorridere ed in fondo mi sfidava ad andare oltre.
Il primo giorno in Argentina fu terribile. Pioveva e la densità dell'umidità nell'aria sfiorava il 95 per cento. Sembrava di respirare acqua. Alla comunità giuseppina di Cristo Obrero, a Villa Soldati, uno dei quartieri più difficili di Buenos Aires, ci accolsero molto bene e ci diedero delle stanze per riposare un po'. Erano appena le 7 di mattina, ma eravamo sfiniti a causa della lunghezza e scomodità del viaggio. L'idea era quella di rimanere lì per alcuni giorni, mentre avremmo cercato un appartamento. Ci rimasi per oltre due anni. Svegliatici nel primo pomeriggio volevamo andare a visitare il quartiere. Sul portone della comunità, padre Alberto ci diede le indicazioni indispensabili: “Dritti potete andare al massimo per duecento metri, oltre diventa pericoloso. Dall'altro lato c'è l'avenida ed è meglio non attraversarla. Di qua ci sono i monoblock ed è rischioso avvicinarcisi. A sinistra invece potete camminare per almeno trecento metri”.
Queste indicazioni sono state preziose soprattutto per i mesi successivi. Essere cauti, preparati al peggio, sapere che la lotta contro alla povertà è una guerra lunga, faticosa, che va combattuta giorno per giorno e che se ne esce spesso sconfitti, stritolati da meccanismi che sono più forti ed al di sopra di noi. Ma il difficile non è questo, il difficile è non perdere mai di vista la motivazione per cui ci si impegna tanto, si investe la vita privata e gli affetti, si rischia la vita nei quartieri più emarginati. Nei quattro anni che sono seguiti, il mio compito, oltre alla costruzione ed all'avvio della fattoria educativa di Avellaneda, è stato quello di coordinare e rappresentare le attività dell'ENGIM in Argentina.
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“Essere straordinari nell'ordinario”, per me significava impegnarsi al massimo, fare al meglio ogni lavoro ricordandosi sempre che dietro ogni colonna di numeri o formulario di progetto ci sono opportunità di formazione per ragazzi a rischio, vite strappate alla strada, educatori ai quali si consente di poter svolgere a pieno le attività in un ambiente attrezzato e dignitoso. “Fare il bene e farlo bene” è stata, invece, la citazione che più ho richiamato alla mente in questo periodo. Un imperativo molto difficile ed impegnativo da applicare, ma che è stato il mio punto di riferimento, il cammino da seguire, imparando ed apprendendo giorno per giorno come meglio raggiungere, sia nelle attività che abbiamo sostenuto che in quelle che abbiamo creato ex novo, questo risultato.
Sicuramente quello che ho imparato da questa esperienza in Argentina è stato molto di più di quello che ho cercato di comunicare. Ringrazio di tutto ciò sia l'ENGIM che i Giuseppini che mi hanno dato questa opportunità di crescita, ringrazio delle giornate felici, come quando ho vissuto da protagonista l'inaugurazione e l'apertura di un nuovo centro educativo oppure quando ci hanno consegnato un nuovo trattore per la comunità di piccoli agricoltori di Colonia Molina, a Mendoza. Ringrazio tutte le persone straordinarie con le quali ho condiviso progetti, lavoro, ideali e sogni, persone come noi, educatori, agricoltori, volontari, religiosi che ogni giorno si pongono l'obiettivo di fare il bene e lo fanno bene.