Di Luigi Caporale. In solitario, veleggiando alla ricerca di qualche capo da doppiare; un sogno che continua a tenermi compagnia nelle torride notti qui in Chapare, nonostante non abbia le minime nozioni in fatto di navigazione e soffra terribilmente il mal di mare. Se qualcuno avesse cercato di convincermi che questa sarebbe stata la metafora perfetta per definire la mia avventura nel tropico di Cochabamba (verde, rigoglioso, attraversato da poderosi fiumi ma pur sempre a mille chilometri dalla costa più vicina) avrei sicuramente stentato a crederci.
Eppure adesso, a sei mesi dal nostro stropicciato arrivo nel piccolo ma accogliente aeroporto della Llajta, non sarei in grado di trovare un’immagine simbolica in grado di meglio fotografare questo tipo di esperienza. Avevo giurato a me stesso che non sarei ricaduto nel clichè del novello Robinson Crusoe, eppure è bastato un giorno (quello del primo impatto con il pueblo di Eterazama) per far sì che dalla mia bocca fuoriuscisse un profluvio di istantanee narcisistiche, di come le strade fossero sporche, il clima insopportabile, la gente poco ospitale e io un eroe.
Passano i mesi e gli stabili mi sembrano meno decrepiti di come li ricordassi, il sole cocente un’opportunità per apparire più colorito nei weekend trascorsi in città e le labbra dei passanti maggiormente propense a regalare un sorriso. In realtà, la vita qui al Tecnologico di Eterazama trascorre all’insegna di una, per noi spesso scomoda, normalità. Un ragazzo alla ricerca disperata di nozioni sullo smartphone durante il compito in classe, partite a calcetto che non iniziano perché il decimo uomo ha dato buca e una miriade di piccoli grattacapi quotidiani che potremmo ritrovare fotocopiati al centro di Milano o nella periferia di Pechino.
Il mantra che ha contraddistinto il periodo di formazione prodromico alla partenza si è incarnato nel concetto di non indispensabilità. L’anno di Servizio Civile qui in Chapare ti mette di fronte a questa evidenza in modo sistematico, a volte persino crudele. Ho affrontato il mio status di “non-indispensabile” con ostinato orgoglio, prendendola sul personale ma ho finito inevitabilmente per apprezzarlo, scovandone il significato più immediato e semplice.
Cercare a tutti i costi il modo di rendere migliore una realtà come quella del CEFTE, così ben rodata ed apprezzata (chiaramente perfettibile, come tutto e tutti) vuol dire accettare la duplice sfida quotidiana del dover prima pianificare un’attività che possa aggiungere qualcosa di buono a quanto già implementato e in un secondo momento darle vita in modo che possa aderire il più possibile a un contesto così peculiare come quello del tropico. Le giornate passano così tra una lezione di inglese e l’altra, laboratori d’informatica, talleres cuciti addosso alle varie carreras, “servizi fotografici”, podcast tematici sviluppati anche in lingua quechua (in prosecuzione di quanto ideato dai volontari che mi hanno preceduto) e una serie di attività trasversali che, come spesso accade, nascono da esigenze estemporanee e dalle varie stagioni che l’istituto vive.
Eterazama ruota anche attorno alla minuta piazza situata nel cuore del pueblo, un rettangolo in cui passare le proprie serate (prescindendo dalle ore meramente assegnate al Servizio) accerchiati da decine di bambini di tutte le età, da piccole donne di 5 anni incaricate di occuparsi di ancor più piccole sorelle in fasce, da occhi curiosi, mani svelte nel cercare di costruire una rana con la tecnica dell’origami, panche in miniatura da mettere in cerchio in attesa che un racconto cominci. La piazza, costellata di fiochi lampioni e con la sua apparente inospitalità è anche il luogo in cui diventa maggiormente difficile impedire che la retorica prenda il sopravvento, impossibile poi tenere a bada i sensi di colpa per le volte in cui si è preferito restare a casa tentati da una serie su Netflix piuttosto che imboccare il lungo viale intervallato da palme e apportare il proprio contributo. La piazza è un riflettore sempre puntato su sé stessi, sui propri limiti, su quelli che possono essere affrontati, forse persino superati e altri di cui prendere semplicemente consapevolezza, cercando di impedire che l’auto-biasimo soppianti ogni altro tipo di stato d’animo.
L’anno di Servizio è infine un continuo Odi et amo con la terra che ti accoglie; adoro e detesto l’insistenza del reggaeton che ti impedisce di parlare al telefono durante uno dei frequenti e angusti viaggi in Surubì (il tipico furgoncino che collega la città di Cochabamba con le località del tropico), la naturalezza con cui una Cholita si appresta a poggiare sulle tue gambe svariati sacchi di mele pur di venderne qualcuno, i silenziosi imbarazzi al seguito di una battuta che non ho capito o che non sono riuscito a far comprendere.
Ci sono ancora delle giornate in cui sognare ad occhi aperti e stupirsi dell’esperienza che si sta vivendo; in tutte le altre regna una semplice quotidianità, con i suoi imprevisti e gesti routinari, forse noiosi in qualsiasi altro momento, ma mai tanto rassicuranti e poco scontati come in questo contesto.
Testimonianza di Luigi Caporale
volontario ad Eterazama in Bolivia