Di Giuseppe Di Maria. Anche febbraio è passato e siamo, ormai, vicini alla metà della nostra esperienza di Servizio Civile Nazionale all’estero. Vivere sulla Cordigliera delle Ande, a latitudine 0°, quattro stagioni in un giorno, e stupirsi del fatto che quasi sei mesi sono già volati.
Ogni tanto mi guardo alle spalle e mi vedo a longitudine 0°, tra i grattaceli di Londra, tra le vie di Bromley, Acton, Shoredich e mi vengono tanti flashback di quella vita così vicina e così lontana, con me dietro il bancone di un cocktail bar, o in casa a studiare la lingua inglese, o in giro a fare colloqui per varie ONG, tentando di crearmi un futuro in quel settore di cui sono determinato a far parte, la cooperazione internazionale. Poi è arrivata la mia occasione: andare a lavorare in una scuola indigena in Ecuador, partire per un anno con gli altri volontari ENGIM in servizio civile sparsi tra l’Amazzonia, le Ande e le pianure costiere, tutti a vivere quest’esperienza unica e meravigliosa; meravigliosa proprio come l’America Latina.
L’Ecuador è un Paese dalle mille sfumature, è sorprendente per la sua biodiversità naturale e per il suo “melting pot” umano, composto dalle varie culture indigene andine e amazzoniche, “montubios” della costa, immigrati colombiani, boliviani e peruviani, argentini in viaggio e turisti da ogni parte del mondo. Ogni giorno, andando a lavoro, guardo dal finestrino del bus il “Panecillo”, la collina che separa il nord dal sud di Quito, un passaggio brusco, dall’architettura coloniale del centro storico agli sterili edifici delle periferie del sud. È un Paese dai mille paradossi, dalle mille contraddizioni, dai forti contrasti, un Paese dai “passaggi bruschi”, e quella collina, linea di demarcazione tra la parte povera della città e quella ricca, è estremamente emblematica.
Essere un docente in una scuola indigena presuppone che io sia in grado di rispettare e non entrare in contrasto con la “vision” della scuola, quindi non si tratta solo di entrare in contatto con una cultura diversa, ma immedesimarsi nella cultura stessa, entrare a farne parte ed essere accolto come un figlio da questa gente. Vivere a stretto contatto con gli indigeni Kichwa significa fondere spiritualità, cultura e vita quotidiana; significa dover imparare ad interpretare una differente chiave di lettura del mondo che ci circonda, imparare a percepire gli elementi naturali e gli ecosistemi come esseri viventi e sacri, imparare a rispettare la “Pachamama” (Madre Terra) e saper riconoscere e ascoltare i segnali che la natura generosamente ci regala, seguire il calendario lunare, fare dei rituali per ringraziare il padre sole e la madre montagna, coltivare la “chakra” con i metodi tramandati dagli antenati.
Uno dei miei obiettivi personali è quello di prendere le distanze dal mio etnocentrismo inconscio, ed è forse una delle imprese più difficili che io mi sia mai preposto, ma è estremamente appagante notare i progressi che faccio nel vedere il mondo così com’è, nella “cosmovisione” indigena andina.
Anche viaggiare per il Paese è un’esperienza più unica che rara; quando dalle Ande si va in Amazzonia, o sulle spiagge del Pacifico, si cambia paesaggio, clima e costumi in poche ore di bus. Purtroppo i popoli autoctoni sparsi sul territorio, come ad esempio gli Shuar, i Kichwa, gli Huaorani, hanno in comune una cosa: sono tutti vulnerabili al fenomeno dell’omologazione culturale, che, ad oggi, rappresenta una minaccia per questo “melting pot” culturale straordinario.
Sembra che la modernità e il macro-sistema economico capitalistico tentino di divorare quelle radici ancestrali, che però continuano a resistere nello sforzo di essere tramandate. Per questo sono estremamente felice di aver scelto un progetto che mira alla preservazione delle minoranze culturali e linguistiche che rischiano di essere schiacciate dagli effetti collaterali della globalizzazione e dalla standardizzazione culturale proposta da un sistema occidentale consumistico, palesemente fallimentare ma, tuttavia, ancora tristemente replicato.
Mi torna in mente un particolare di uno dei miei viaggi, l’internet point della comunità indigena di Limoncocha, altra figura emblematica di queste mie riflessioni. Limoncocha è una comunità che vive sulle rive di una laguna bellissima nella giungla inoltrata, completamente separata dalla civilizzazione tranne che per una strada sterrata e quell’internet point.
Tutto è così diverso dalla grande Londra e dalla cara vecchia Palermo! Ho cambiato completamente stile di vita e, dopo quasi sei mesi dalla mia partenza, in qualche modo mi sento diverso anche io. Mi sento arricchito dall’aver vissuto in un contesto così particolare, dal lavorare in un’istituzione che crede nella resistenza indigena, dall’aver viaggiato zaino in spalla e aver scoperto luoghi mozzafiato e conosciuto persone incredibili. Siamo quasi a metà del nostro viaggio e c’è ancora tantissimo da fare e da imparare, l’importante è andare avanti, passo dopo passo, continuando a godersi il panorama.