Di Ludovica Novelli. È strano rimettermi a scrivere dopo un mese, considerando che ottobre è volato in un attimo e sembra passato un giorno da quando ho inviato la prima relazione. Quà il tempo scorre veloce e sembra sempre troppo poco per capire, per sviscerare i pensieri che la quotidianità al Ceipar provoca in me.
Rispetto a ciò che sto vivendo in queste settimane, mi gira in testa da un po’ una massima di Paulo Freire, le cui parole semplici e dirette hanno ispirato l’esperienza educativa in cui sono cresciuta: “nessuno educa nessuno, nessuno educa sé stesso, – ha scritto negli anni ’70 – ci si educa insieme con la mediazione del mondo”. Proseguendo questa esperienza al Ceipar mi convinco sempre di più della verità di questa frase e penso che in essa si possa trovare la chiave del lavoro educativo: è mantenendoci umili e aperti ad apprendere dalla relazione coi ragazzi che possiamo scoprire gli strumenti che, davvero, ci permettono di aiutarli nel loro percorso e, realmente, educarci insieme.
Questo, credo, valga per ogni ambiente educativo, ma a maggior ragione per quello in cui mi trovo a lavorare, considerando che a scuola i bambini non sembrano vivere un percorso comune, quanto una passiva (e spesso inefficace) ricezione di contenuti, quasi fossero scatole vuote da riempire con nozioni, senza il bisogno di alimentare in loro la voglia di scoprire, di conoscere, di (imparare a) pensare e domandare, senza che avvenga un vero e proprio processo di apprendimento ed educazione. Per questo motivo, si sente ancora di più il bisogno di costruire relazioni feconde, che li aiutino a “sbocciare”, a tirar fuori le proprie capacità e così a crescere, interessandosi al mondo.
Quasi ogni giorno, in questo primo mese e mezzo, ci siamo scontrati con la totale “inabitudine” di questi bambini a riflettere, a stare concentrati sui loro “deberes”, a essere presenti, semplicemente, in qualsiasi attività che richieda attenzione ed interesse. A volte, di fronte a tanta apatia e mancanza di curiosità, rischio di perdere la pazienza … possibile che nulla susciti in loro quella molla che fa scattare il pensiero? La voglia di capire quello che stanno studiando?
È qui che posso apprendere – che posso “essere educata” nel mio tentativo di “educare”: innanzitutto a ridimensionare le mie aspettative e i miei preconcetti, a tirar fuori ancora più pazienza, quella necessaria a rispiegare per l’ennesima volta un concetto, a non limitarmi ad arrabbiarmi se ridono e non ascoltano, se sono inquieti, ma semmai cercare in tutti i modi di capire la radice del loro modo di vivere lo studio, e di individuare una maniera efficace per suscitare in loro quella curiosità che è necessaria per imparare. Questi scogli enormi che incontriamo ogni giorno nel tentativo di aiutare i ragazzi a divenire autonomi – è questo in fondo ciò che gli manca nel processo di apprendimento: pensare con la propria testa – mi aiutano a rendermi conto che il lavoro da fare, ancor prima di pensare a chissà quali attività extrascolastiche, è proprio quello di aiutarli a scoprire le proprie potenzialità e finalmente a metterle a frutto.
A volte la percezione è che le loro teste siano in stand-by, così poco abituate a trovare interessante per la loro vita quello che studiano da risultare conseguentemente come “spente”, incapaci di comprenderlo. E spenta sembra la loro curiosità, il loro spirito critico. Mi chiedo cosa facciano a scuola, se i professori s’interessino a loro, se si accorgano delle loro lacune e, se sì, come possano accontentarsi degli scarsi risultati che ottengono. Non aiuta il fatto che questi bambini siano al tempo stesso poco propensi ad ascoltare: a volte se spieghi qualcosa o li richiami si voltano dall’altra parte come se non stessi parlando, probabilmente pensando che una spiegazione delle cose sia inutile, che sia sufficiente sapere la risposta da copiare per prendere un buon voto. È ancora qui che imparo, a non mettere in atto soluzioni preconfezionate, ma cercarne di nuove affinché escano da questo meccanismo e trovare dei modi non tanto per far loro imparare cose che non sanno, ma – ancor prima – per far sì che comincino davvero ad imparare, che apprendano a farlo.
Mi rendo conto che il percorso è lungo, ma credo che già porsi la questione possa essere il primo passo per non dare nulla per scontato e tentare di crescere in questo senso, grazie anche alla quotidianità condivisa – confrontata e ripensata – coi miei due compagni di viaggio e con le educatrici che lavorano con noi.
Questa riflessione è sicuramente il pensiero più insistente con cui lascio il mese di ottobre, cercando di fare passi avanti nel novembre appena iniziato, ovviamente non significa che ci sia solo questo nella mia testa dopo il primo periodo vissuto al Ceipar, ma posso dire che in ogni ambito del nostro lavoro ritrovo e sperimento con forza le parole di Freire. Ogni giorno relazionarmi con questi bambini, con le loro difficoltà e con le loro storie che emergono continuamente negli atteggiamenti spesso inquieti e aggressivi, così come nella continua ricerca di affetto e attenzione, mi interroga e mi mette in discussione e credo che mi aiuti più dei libri, degli studi, perfino degli ideali, a crescere e ad imparare a relazionarmi con loro. Perché è nella relazione che si apprende la relazione e che ci si può “educare insieme con la mediazione del mondo”.