Di Arturo Gorup-de Besanez, Casco Bianco a Quito (Ecuador) - L’ufficio di HIAS nel sud di Quito appare a prima vista come l’entrata di un parcheggio domestico. Una volta bussato, le guardie aprono una piccola finestrella dalla quale ti riconoscono e ti fanno entrare. Le persone che arrivano per ricevere o sollecitare l’assistenza di HIAS passano dalla stessa porta, e infatti la sala d’attesa è la prima cosa che ci si trova davanti una volta entrati negli spazi dell’ONG. Si rivolge un “buenos días” alle guardie e uno alle persone in attesa. Molte di loro, per essere li ad aspettare il loro appuntamento (la prenotazione di una “cita” è infatti condizione sine qua non per essere ricevuti) hanno già dovuto fare dei sacrifici, di solito quello di una giornata di lavoro in proprio e il guadagno che ne sarebbe derivato.
Ovviamente, non tutte le persone che ricevono le attenzioni di HIAS sono uguali. Differenze di genere, età, situazione familiare sono le più immediate. Per quello che riguarda la provenienza, la grande maggioranza sono colombiani, in fuga principalmente dalla violenza, e venezuelani, principalmente spinti dal collasso economico del loro paese. Ma c’è un’altra distinzione, molto più spinosa, ed è quella del grado di vulnerabilità. Sia HIAS che l’UNHCR, di gran lunga il suo partner più importante, hanno infatti sviluppato, si presume con un continuo raffinamento, sistemi di classificazione per stabilire l’urgenza di un intervento o l’effettiva necessità di un’assistenza. Le risorse limitate che maneggia l’ONG implicano che pochi dettagli biografici possono costituire lo spartiacque fra ricevere un’assistenza per l’acquisto di alimenti e non riceverla, o fra l’entrare in un programma di elargizioni economiche e il non possedere i requisiti.
Non tutto il lavoro di HIAS è però incentrato sulla prime necessità. Anzi, si può forse dire che l’obiettivo finale del lavoro dell’organizzazione sia quello di assistere le persone straniere in difficoltà a raggiungere l’indipendenza economica, motivo per il quale vengono prese molte precauzioni per evitare che gli aiuti offerti dall’ONG si traducano in assistenza paternalistica, che alimenti, al contrario, relazioni di dipendenza. Ed è qui che entra in gioco la sezione in cui mi trovo io, cioè quella di “inclusione economica”. Anche a causa del modo in cui le questioni migratorie vengono solitamente raccontate nei media, è facile dimenticarsi che quando una persona migrante o rifugiata arriva in un paese, non è una scatola vuota, la cui presenza è unicamente un problema umanitario e logistico per il luogo d’arrivo, ma un essere umano che porta con sé una vita di conoscenze, di esperienze, di capacità. Quello che mi ha attirato da subito dell’area di inclusione economica è stato proprio questo, cioè la possibilità di interagire con i beneficiari non tanto partendo dalla loro situazione di difficoltà, ma come persone che, con il loro arrivo, possono contribuire ad arricchire il contesto in cui si trovano. Il lavoro della mia sezione è quindi più di accompagnamento che di assistenza.
Il primo percorso possibile è chiamato di “empleabilidad”. Una volta registrate le loro esperienze, capacità, e ambiti In cui sentono di potersi districare, HIAS offre seminari su temi come la stesura di un curriculum, la ricerca di un lavoro e le strategie per affrontare i colloqui. In un secondo momento le persone che hanno partecipato a tali seminari possono essere inserite nel database dell’ONG, dal quale inviamo i curriculum ad imprese, con cui HIAS ha intessuto rapporti, in cerca di personale. Un secondo percorso è quello di “emprendimiento”, diretto a quelle persone le cui esperienze e capacità conducono di più al lancio di un’attività in proprio. Gastronomia, saloni di bellezza, e piccole attività artigianali sono i tipi più frequenti di “negocios” per i quali HIAS aiuta a sviluppare i progetti, sia a causa dei profili delle persone interessate, sia per la relativa facilità di iniziare una microimpresa da zero in tali ambiti.
Questo, almeno, per quello che riguarda la teoria. Non sorprenderà che la pratica non è altrettanto rosea. Innanzitutto per quelle persone che, forse essendo state indirizzate alla nostra area troppo frettolosamente, si aspettano di ricevere assistenza o fondi immediatamente, mentre il lavoro di “inclusione economica” è per definizione un processo che richiede impegno e tempi più lunghi. Tempi di cui spesso i beneficiari di HIAS non dispongono, e capita infatti molte volte che, nonostante profili promettenti ed interesse mostrato verso le attività dell’ONG, non ci sia nessun seguito agli appuntamenti individuali che sono il primo passo per tutte le persone che si rivolgono ad HIAS. I miei colleghi mi informano che solitamente ai seminari si presentano circa la metà di tutti gli invitati.
Potrebbe sembrare frustrante, ma in questo senso la sezione di “inclusione economica” è estremamente emblematica del lavoro degli operatori umanitari. Si trattasse solo di numeri, i risultati sarebbero certamente deludenti. Trattandosi di persone, invece, la possibilità di riuscire a cambiare la vita in meglio anche a solo una diventa un successo non quantificabile.