Di Eleonora D’Amico, Ibarra (Ecuador). Qui si sta attorniati dai vulcani e dalle Ande. Chiamano Ibarra “la città dell’eterna primavera” perché il clima non cambia mai, ci sono sempre i fiori. Non avevo idea di cosa aspettarmi dal Sud America, e neanche volevo averla, volevo che tutto fosse una sorpresa e così è stato. Ogni tanto, camminando per le strade familiari, ricordo quando mi sembrava tutto troppo: la gente, la musica, i microfoni, i negozi, i bambini, i taxi che passano la salsa in radio, le bancarelle. Soprattutto le bancarelle.
Quando ho conosciuto Monica, in ufficio, mi ha detto che qui tutti vogliono avere un “emprendimiento”, che è raro che qualcuno voglia mettersi a disposizione per lavorare da dipendente. Il progetto nel quale lavoro consiste nel fornire ai partecipanti gli strumenti per far sì che la loro attività sia sostenibile, e se non lo è, dar loro delle alternative. Descriverò qualche caso con cui mi sono relazionata durante il mio volontariato, per rendere l’idea.
Keiner e Idalys: Keiner è venezuelano, lui e la sua compagna Idalys abitano vicino al mercato di Ibarra e la loro casa, condivisa con altre persone, è la loro sede lavorativa. Ha un accento molto forte che svela le sue origini e un viso tondo e allegro. La sua impresa consiste nel produrre insaccati nella cucina comune, ha un suo logo e una sua pagina Instagram, il suo sogno è quello di aprire un lounge bar. Dice che non bisogna mai smettere di sognare e provarci fino alla fine, e in quanto migranti ce lo hanno ben chiaro. Idalys sposta una grande tenda nella stanza dove ci hanno accolte e scopre il suo laboratorio sartoriale: lei crea vestiti che poi vende ai mercati vicini, ha un carrellino della spesa pieno delle sue opere, pantaloni leopardati, crop-top colorati, vestiti, leggings. Non ha un logo né una pagina web, ma è quello che ha studiato e che le piace fare e riesce a guadagnare un po', anche se vorrebbe avere più occasioni per esporre la sua mercanzia.
Sanjer: Sanjer è venezuelana, è magra e veste sempre molto aderente, ha il rossetto rosso sulle labbra sottili e gli occhi grandi. Ha due figli adolescenti che cresce da sola, il più piccolo ha problemi al cuore e ci ha raccontato commossa di quanto sia difficile vivere in questo paese, dove anche in contesti ospedalieri si sente forte il razzismo nei confronti degli stranieri. Lei in passato ha lavorato da dipendente, ed è sempre stata trattata male in quanto venezuelana. Ora crea bracciali, collane e cerchietti per i capelli che vende in giro per i mercati, e anche là è una lotta per accaparrarsi il posto migliore e offrire prezzi competitivi. Vive in un appartamento in comune con altre famiglie, ha una stanza con un letto matrimoniale, un tavolino che usa da laboratorio e un frigorifero, mentre i figli sono nella camera di fronte alla sua. Le uniche cose di cui necessita per lavorare sono fili, perline, fil di ferro, una grande valigia per trasportare la merce e qualche espositore, ed è contenta così perché vive dei suoi propri sforzi e non deve sottostare ai maltrattamenti di qualche superiore poco gentile.
Dainer: La casa di Dainer si trova nel quartiere Priorato, ci si accede tramite un grande cancello con all’esterno un cartellone propagandistico di Jan Topić. All’entrata c’è un piccolo spiazzo di terra e un cucciolo di cane attaccato ad una catena che abbaia forte, vestiti di bambina stesi al sole vicino ad un lavandino di pietra con sopra appeso un piccolo specchio. La casa consiste in due stanze: una cucina buia e una camera da letto con un materasso matrimoniale e uno singolo dove dormono padre, madre e bambina, a lato c’è una cassettiera piena di cose e un armadio da campeggio, e credo ci fosse anche una televisione su uno sgabello ai piedi del letto. Dainer vorrebbe essere un imprenditore di comida venezolana ma al contrario degli altri descritti fino ad ora non ha le idee neanche lontanamente chiare su come organizzare la sua attività. Il primo problema e il più grave è che non ha un forno, e l’unica cosa che può vendere sono arepas crude. Non riesce a vivere di questo, per cui gestisce anche un piccolo gruppo di riciclatori.
Emily: Emily è colombiana, è una donna alta con l’apparecchio ai denti, ha discendenze afro. Non mi è piaciuta da subito, mi sembrava superba. È una parrucchiera ed ha un salone di bellezza dove fa anche le unghie e crea parrucche, il locale è piccolo ma l’arredamento è ricercato: all’entrata c’è un divanetto viola un po' annerito nei punti più utilizzati e cuscini in pendant, davanti a questo una poltrona da acconciatura dai toni viola e un lavatesta un po' nascosto in un angolo. In fondo c’è un tavolino con il fornelletto per le unghie e scaffali pieni di smalti. Emily conosce il suo negozio, ha fatto dei corsi di gestione e sa quanto guadagna in comparazione a quanto spende, sa cosa possiede e quanto vale considerando l’ammortamento. Ha dedicato più di dieci anni alla creazione della sua attività, e sta cercando di registrare il marchio. Due settimane fa è venuta in ufficio per farci sapere che era sua intenzione chiudere e trasferirsi chiedendo aiuto ad ACNUR: i narcos sono arrivati anche a lei e pretendono una parte dei suoi guadagni.
Quello che ho potuto notare in tutti questi casi è la grande forza di volontà e la voglia di mettersi in gioco facendo corsi e laboratori, pur avendo spesso situazioni incomode. Ciò che tutti loro cercano di raggiungere è un’indipendenza lavorativa che gli permetta di vivere dignitosamente senza dover sottostare ai maltrattamenti di qualche capo mal disposto, riuscendo a far convivere gli impegni lavorativi e quelli familiari nel migliore dei modi. Uno dei contro di questa scelta è che ci si trova spesso a lottare da soli e a dover essere sempre forti e performanti per non perdere la propria indipendenza: per questo progetti come quello in cui svolgo il mio Servizio Civile Universale si propongono di creare non solo delle competenze, ma anche un gruppo unito di persone che fanno comunità e si aiutano reciprocamente, e questa credo sia la cosa più importante che si possa donare.