Di Marica Tarallo. È ufficiale, sono tornata. Ancora. Di nuovo. Ho in mente questo resoconto da prima di partire, pensavo di scriverlo durante il viaggio, tra le chiacchiere coi nuovi volontari, o alla luce fioca di una lampada da tavolo, prima di dormire, a casa della collega ecuadoriana che mi ha accolto. Magari nei vagoni fintamente polverosi della “Nariz del Diablo”, in qualcuno dei posti turistici per i quali non avevo avuto tempo quando abitavo a Quito. O ancora, in aeroporto, in aereo, in una qualsiasi delle molte tappe che ho attraversato, dopo l’Ecuador, prima di tornare davvero in Italia. E invece lo scrivo oggi, forse perché ho finalmente lavato lo zaino.
Ma perché tornare dove ho fatto il Servizio Civile? Due anni dopo, stavolta in vacanza. Due anni cantando solo in Spagnolo sotto la doccia, senza mai aver veramente recuperato il fuso orario, perché la notte è il momento ideale per telefonare di là! E quando chiudi la chiamata con la suora, con un amico, con la famiglia della bimba a cui ti sei affezionata … sono quasi le due di notte e stai per staccare internet … ma arriva la videochiamata di un’altra mamma … e che faccio, non le rispondo? Tanto ormai sono sveglia ... E questo benedetto Ecuador, che viene sempre fuori nei primi cinque minuti, ogni volta che mi presento a una persona nuova! I miei studenti di italiano per stranieri sono convinti che io sia nata là e che conoscono la geografia delle Ande meglio di quella degli Appennini. Una domenica mi sorprendo a friggere yucca e banane invece delle polpette di zia per il pranzo di famiglia, alla faccia del chilometro zero.
Quella domenica mattina lì, invece, l’aria fresca delle Ande mi strappava al torpore dell’aereo e l’altura tornava a torcermi lo stomaco. Erano passati due anni. Stavolta non atterravo assieme ad una baraonda di compagni pieni di curiosità e voglia di fare, ma sola ed intrisa di nostalgia. Una cara ex-collega si era offerta di ospitarmi per tutta la settimana, non avevo dubbi sull’affetto suo e delle altre “tias” ed “hermanitas” con cui ero in contatto da mesi, facendo il conto alla rovescia per questo viaggio. Ma i bambini? Si sarebbero ricordati di me, delle mie compagne di Servizio, di noi … avrebbero confuso i nostri nomi, magari anche con quelli di volontarie di anni precedenti? I ragazzi ormai cresciuti e diplomati, alcuni di loro perfino diventati giovanissimi padri e madri, li avrei rivisti affatto?
Dall’aeroporto al quartiere Yaguachi ho fatto tutto in bus, prima fino al “Terminal Quitumbe”, poi in groppa al “Corredor Sur Simon Bolivar”, azzurro e traballante come sempre, fino alla fermata della “Mascota”, la stessa di quando entravamo in servizio ogni mattino. Ed anche la nuvola di smog che mi investe il viso è la stessa di allora, mescolata al profumo di zucchero caramellato e pane fresco, presto spazzato via da una folata di frattaglie arrosto, che non è ancora mezzogiorno. Chissà che “pinta de gringa”, che aria da straniera, intrusa e turista devo avere, con gli occhi spalancati neanche vedessi il quartiere per la prima volta e con questo zaino più grande di me! Ma sono passati meno di dieci secondi e non ho nemmeno attraversato l’incrocio, quando mi sento chiamare: “¡Tia! ¿Y ese milagro?” è la nonna di tre delle nostre bambine, mi ha riconosciuta! “¿Y donde estan las demas? Dove sono le altre tre ragazze? Ci mancano tanto, digli di tornare presto!”. Pochi passi più in su sulla salita, siamo nel cortile di casa sua. Chiedo di poter salutare almeno la nipote più grande, l’unica che non è in vacanza sulla Costa. Ricordavo i messaggi strazianti che ci aveva scritto la ragazzina, pochi giorni dopo il rientro in Italia due anni fa: “Tias, ¡no se vayan! Non andate via, non mi abbandonate, voi sì che mi capivate!”.
Insomma, carrambata assicurata… e invece non si ricorda. Non si ricorda! Non è che mi confonde con qualcun’altra, non sbaglia il nome … dice di non ricordarsi affatto … o forse fa finta? Per farla breve, è stato così tutta la settimana: bambini, adolescenti, genitori, parenti, “vecinos”, colleghe, “hermanitas”, panettieri, taxisti, cani e gatti: qualcuno mi accoglieva con abbracci stritolanti, qualcuno chiedendo delle mie compagne, qualcuno con un’alzata di spalle, un’occhiata interrogativa, qualcuno ancora abbracciandomi, salvo chiedermi nome, provenienza e se parlassi inglese … qualcuno con una raffica di sefie, o regalandomi un disegno. Per fortuna alla mia collega non ho dovuto nemmeno citofonare: ha sentito i miei passi, si è affacciata alla finestra al primo piano e mi ha chiamata: “¡Maaariiiiii, bienvenidaaaaaaa!” poi ha mandato giù uno dei suoi figli per aprirmi il portone.
I nuovi compagni di quest’anno li ho visti il lunedì mattina, quando sono ricominciate le attività del Ceipar. Ci eravamo scritti qualche giorno prima, ci tenevo a non piombare lì dal nulla ed ho cercato di entrare in punta di piedi nella loro esperienza. Sono stati fantastici, mi hanno accolta e hanno condiviso con me il loro tempo di lavoro e di svago, le loro idee, l’entusiasmo, l’impegno, le fatiche e le soddisfazioni. In un certo senso era come guardare se stessi da fuori … e allo stesso tempo no, perché ogni gruppo è unico: la sua esperienza e le sue emozioni sono sue e impossibili da replicare.
Cosa mi aveva insegnato partire, la prima volta? Che un anno è lungo, ma passa in fretta. Che c’è un tempo per tutte le cose. Se vuoi impegnarti nel tuo lavoro, oggi è il giorno per farlo. Se hai un’idea geniale per un nuovo laboratorio coi bambini, portala avanti nonostante le difficoltà. Se vuoi dire alle tue compagne che gli vuoi bene e le apprezzi, non aspettare. Se vuoi ricambiare un regalo, una gentilezza, un’attenzione, fallo finché ci vivi assieme: il momento per starsi vicine è quello.
Il bello è che questo entusiasmo, questa capacità di cogliere l’attimo, se ci provi abbastanza la puoi allenare e portartela in valigia, fino a casa. Nel tuo lavoro di tutti i giorni, nella cascata appena fuori città, che non avevi ancora visitato, in un abbraccio agli amici di sempre.
E tornare, che cosa mi ha insegnato tornare? Tanto per cominciare, che di questo mal d’Ecuador non mi libererò mai: se pensavo di archiviare la cosa con un viaggio di due settimane, mi sbagliavo di grosso! Ho capito che tutte le mie aspettative, le idealizzazioni, ma anche le paure, potevo tranquillamente ridimensionarle: l’Ecuador non è un idillio fuori dal mondo, né l’unico posto dove valga la pena vivere … la vita (sorpresa!) va avanti indipendentemente da me, dai volontari passati, presenti e futuri e perfino le famiglie con cui ho legato di più, da me non si aspettavano mica la luna. Non succede nulla se non rispondi a una videochiamata in piena notte, o se spieghi che non te la senti di battezzare un bambino: se hai sempre cercato di essere autentica, le persone non si aspetteranno da te ne più e né meno di ciò che sei e vuoi condividere assieme a loro. Ho imparato che ho un posto in più, anzi molti posti, da poter chiamare “casa”. Che ci sarà sempre chi spalancherà un abbraccio, una porta, una finestra al primo piano. Forse non servirà nemmeno suonare il citofono.