Di Selene Magnolfi. Ore 8:30 del mattino. Esco di casa e affronto la prima delle tante salite della giornata. Arrivata in cima mi fermo ad aspettare il bus che passa per l’Occidental, una lunga strada trafficata che attraversa Quito. Non ci sono orari fissi, eppure sembra che l’autista sia perennemente in ritardo a giudicare dalle grida del “cobrador”, il signore addetto ai biglietti: “Suba, suba, suba! Siga, siga, siga!”. Se tutto va bene, ti lasciano almeno il tempo di salire; la maggior parte delle volte hai ancora un piede sul marciapiede che l’autobus sta già sfrecciando verso nord mentre venditori ambulanti “autorizzati” consigliano ai passeggeri di utilizzare l’aloe come cura contro tutte le malattie o cercano di vendere qualsiasi cosa si possa trasportare in uno zaino: libri per bambini; caramelle; cd con un numero illimitato di canzoni di tutte le epoche di tutta la storia di tutta la musica ecuadoriana; “humitas” tiepide e gelati che iniziano a liquefarsi ancor prima di averli comprati.
Salto dal mezzo ancora in corsa e prendo il secondo autobus, che si arrampica su per le stradine di Cochapamba divincolandosi tra cani di strada e piccole case colorate lontane dai grattacieli della “Quito bene”, mentre la signora seduta di fianco mi guarda con aria incerta, probabilmente chiedendosi che cosa ci faccia una “gringa” nel suo quartiere. L’autobus mi lascia esattamente ai piedi dell’ultima salita che mi attende prima di raggiungere il cancello verde che conduce dentro la mia Cochapamba. Arrivo in cima ma aspetto sempre qualche minuto prima di entrare, il tempo per ammirare lo spettacolo che si apre davanti ai miei occhi: il solito paesaggio che non è mai lo stesso. A volte, nuvole come panna montata lasciano appena intravedere la punta innevata del Cayambe; altre volte, nuvoloni scuri sovrastano i tanti grattacieli grigi e i monti verdi che si alzano oltre la città. Poi ci sono mattine in cui il cielo è talmente azzurro e il sole picchia così forte che il temporale del giorno prima sembra un lontano ricordo finché, poco dopo, non inizia a piovere di nuovo.
Mi lascio Quito alle spalle ed entro. Trovo la signora Carmen ai fornelli, intenta a preparare la solita ottantina di pasti quotidiani, mai stanca e con un sorriso che sa di casa. Poco dopo arrivano Lidia, suor Franca e suor Giacinta che ci chiamano con il clacson per scaricare la macchina piena di verdure, Lizbeth con la piccola Emy che ancora non parla ma già corre ovunque, Vinicio, Jefferson che tutte le mattine si rifugia nel centro per scappare dalle cinque sorelle ed infine gli anziani. Gli anziani. Qualcuno di loro mi guarda storto borbottando perché il giorno prima non mi ha vista, mentre altri non fanno in tempo ad entrare che già iniziano a chiedere preoccupati quando verrà distribuito il latte. Poi ci sono quelli che mi salutano con due occhi che dicono tutto, c’è tutta la loro vita dentro quegli occhi sempre un po’ bagnati. Ricambio quegli sguardi con tanti abbracci e qualche “cariños” sperando di alleggerire per quel che posso la loro giornata. Spesso in realtà sono proprio loro, con un semplice sorriso, ad infondermi la serenità che cerco di mantenere e la pazienza che mi manca mentre corro su è giù per le scale alla ricerca delle chiavi per aprire i lucchetti delle mille porte sempre chiuse che dividono il cortile esterno dalle stanze interne.
A metà mattinata vado a far visita alla signora Bella che vive ai piedi di Cochapamba, il che equivale a dieci minuti di discesa che diventeranno poi almeno venti di salita sotto il sole cocente di mezzogiorno. Escuby, l’enorme cane della signora, mi sente arrivare prima di tutti e, non appena apro il cancello, è già su due zampe pronto ad abbracciarmi a modo suo. Bella invece la trovo seduta su quelle due ruote che la costringono a dover dipendere sempre da qualcuno. La prima volta che siamo uscite fuori casa mi sono resa conto di cosa implichino per una persona diversamente abile i tanti scalini e le infinite salite di Quito: vuol dire che da solo non puoi oltrepassare nemmeno il gradino del parchetto davanti casa; vuol dire che non puoi andare oltre la fine della strada perché poi la discesa è talmente ripida che si fa fatica camminando, figuriamoci con una carrozzina. Per Bella mi sto improvvisando massaggiatrice: passo ore a cercare di distenderle i muscoli del piede che non riesce a controllare e della mano che non può più aprire mentre lei s’impegna al massimo per riuscire ad afferrare la pallina. L’ultima volta che ci siamo viste ha deciso che voleva provare ad alzarsi: mentre io le stavo accanto ed Enza ci seguiva attenta con la carrozzina, Bella ha camminato per le stradine del parco, davanti ai nostri occhi commossi.
Verso mezzogiorno serviamo il pranzo agli anziani. Distribuiamo gli ultimi i pasti e poi ci affrettiamo a mangiare prima che arrivino i bambini. Devo ancora finire l’ultimo boccone che già tante manine mi coprono gli occhi perché indovini di chi sono. Con le braccia all’indietro riconosco le codine lisce di Noemi, la treccia di Daiana, i ricci di Samantha, la visiera del cappello di Yahir, poi sento un berretto di lana che non ricordo. I bambini ridono delle mie esitazioni e io rido con loro. Quando mi volto arresa scopro che sotto il cappellino non ci sono più i lunghi capelli di Priscilla ma un caschetto appena fatto che lei cerca di tenere nascosto. Tutti le sono intorno in un attimo chiedendole che cosa le sia successo in testa mentre io non posso fare a meno di pensare che è ancora più bella con quel taglio che mette in risalto i suoi occhietti neri furbi. Per ultimo arriva Javier, il mio bambino speciale, che non parla molto ma appena mi vede mi corre incontro dicendomi: “Selene, aquì estoy!” e non smette di ripetermelo finché non lo abbraccio.
I bambini più grandi hanno già iniziato a dirigersi verso le varie aule mentre i miei piccini sono ancora alle prese con chicchi di riso e verdure che proprio non vanno giù. Conto cento volte fino a dieci mentre trasformo le cucchiaiate in uccellini, aeroplani, farfalle fin quando tutti non hanno finito di mangiare. Solo allora ci avviamo in classe. Le due ore che mi aspettano incideranno inevitabilmente sul mio umore per buona parte del resto della giornata. Ci sono giorni in cui esco dal centro felice come il primo uomo che ha messo piede sulla Luna semplicemente perché Justin ha imparato a scrivere il suo nome o Polet mi ha detto che mi vuole bene. Altre volte torno a casa frustrata e arrabbiata con me stessa perché mi sembra di non aver ancora capito come prenderli, nonostante sia passato più di un mese. Perché non sono riuscita a evitare che Javier tirasse una spinta a una bambina che non voleva dargli un gioco, perché ho dovuto sgridare Valentina che voleva rimanere in cortile, perché ho passato una serata a ritagliare rotoli di carta igienica per creare fiori di carta e dopo cinque minuti di attività tutti volevano uscire a giocare con la palla. Per fortuna ho scoperto che i bambini si dimenticano in fretta di certe cose: il giorno dopo si sono già scordati dei fiori di carta abbandonati a metà, della palla finita sul campanile della chiesa o del fatto che ho alzato la voce. E’ come se tutti i giorni il nostro viaggio ricominciasse da capo. Come se ogni volta che ci vediamo ci dessimo la possibilità di essere migliori, senza rancori.
Quando tutti se ne sono andati esco dal cancello verde e mi incammino verso l’autobus insieme a Enza e Daniele. A volte siamo talmente entusiasti che non la smettiamo di ricordare gli episodi più divertenti della giornata ridendo fino alle lacrime. Altre volte ci sentiamo così stanchi che quasi non parliamo o passiamo il viaggio di ritorno a lamentarci. Ci sono giorni poi in cui ci basta niente per iniziare a discutere senza renderci conto che spesso stiamo dicendo la stessa cosa semplicemente in maniera diversa. Mentre torniamo a casa Quito mi scorre davanti agli occhi fuori dal finestrino dell’autobus sempre pieno, tra ritmi latini e canzoni anni Ottanta fin quando, finalmente, arriviamo alla nostra fermata. A prescindere da com’ è andata la giornata, dall’umore, dalla pioggia, dalla confusione, ci cerchiamo tra i passeggeri per farci segno di scendere. Appena fuori dal bus, vengo travolta dal puzzo dei gas di scarico delle macchine che sfrecciano lungo l’Occidental e l’odore di “empanadas” che inspiegabilmente è perfino più forte di quello della benzina.
Nonostante alcuni momenti di ordinaria follia, ogni giorno mi rendo conto della fortuna che ho ad essere dove sono e ad esserci con loro: coinquilini, colleghi, compagni di viaggio, amici. Daniele, apparentemente un po’ burbero, che si scioglie davanti ai bambini e li lancia mille volte per aria anche quando ha la schiena a pezzi perché ha passato la mattinata intera a zappare l’orto. Enza, che rimane in classe mezz’ora in più se qualcuno deve finire di fare i compiti e si commuove nel vedere Bella che cammina. Per quanto diversi possiamo essere, l’amore per quello che stiamo facendo, per quanto piccolo possa essere, è il collante che ci tiene uniti e il motore che tutte le mattine ci spinge verso la nostra Cochapamba. Finalmente a casa, oltrepassiamo il cancello lasciando fuori il caos della città. Ci siamo solo noi, anche se in realtà soli non siamo mai: le storie di vita che abbiamo incrociato durante la giornata ci rimangono attaccate addosso, diventando pezzettini della nostra realtà.