Di Francesca Pinto. “Sube a la sierra?” “Si, mami!” Ottimo, saliamo. Durante il tragitto mentre io e Marta parliamo (in italiano) il taxista sorpreso ci chiede: “Che ci fanno due straniere nella Sierra? Andate a trovare qualcuno?” “No, lavoriamo e viviamo lì”, gli spieghiamo chi siamo, che facciamo e come ci siamo arrivate dall’Italia alla Sierra! Rimane un po’ sconvolto. Percorriamo la lunga salita e, oltrepassando Villa Turbay, incontriamo già qualche amico, Anderson che ci saluta, e poi i bambini che abbiamo conosciuto in questi mesi, Jonathan e Miguel Angel ci chiamano, rincorrono il taxi, ci seguono. Il taxista sorride: “Ma… da quanto tempo siete qui!?” “Quasi cinque mesi”. “Io non ero mai venuto fin qui sopra!”
Succede tutte le volte che un taxista ci accompagna a casa. Vivere nella Sierra significa condividere tutti i problemi del quartiere con la gente che lo abita da anni, adeguarsi alla mancanza di acqua nei periodi di siccità. Significa aspettare l’autobus con molta pazienza ogni volta che si torna dalla città, o fermare 5, 6, 7 … 14 taxi per un passaggio, e convincerli che ora la situazione è tranquilla: “Va no es caliente”. Significa mescolare la vita pubblica con quella privata, perché le porte che, altrove si usano per entrare/uscire, qui sono sempre aperte, per far entrare luce, aria, per accogliere, per vedere e ascoltare ciò che succede sulle scale.
Vivere in cima al quartiere significa anche conoscere persone, bambini, abitudini. “Camminando si conoscono le cose […] cammina guardando una stella, ascoltando una voce, seguendo le orme di altri passi, cercando la vita, curando le ferite [..]”. Si creano legami.
Abbiamo conosciuto doña Otilia la proprietaria di un piccolo negozietto lungo la strada verso casa e la sera, quando torniamo dopo il lavoro, la chiacchierata (con pettegolezzi annessi) ci sta sempre, mentre ci riposiamo tra scale e salite.
Tutte le chiacchierate ci hanno chiarito un po’ le idee sulla storia di questo quartiere che ha ospitato una guerra tra bande armate, “qui non si poteva passare” ci dicono, “di sera c’era il coprifuoco”.
Nei primi mesi qui, mi capitava spesso di parlare con dei ragazzi che trascorrono le serate avanti a casa nostra, dopo aver preso confidenza, una sera gli chiedo com’era il quartiere prima, come vivevano qui tre anni fa: “Avevate paura?” “Si, molta, certe volte all’uscita da scuola bisognava correre per cercare un riparo dagli spari”, rimango in silenzio, uno di loro prende la parola. “Io abitavo in una casa un po’ isolata, la notte dormivo su un materassino, e fuori sentivo i passi delle persone ... sai quando hai una cosa nello stomaco e non riesci neanche a ingoiare? Io mi sentivo così, non riuscivo a dormire, non dormivo, stavo in silenzio e cercavo di respirare poco … poi gli spari”.
E’ il turno della ragazza “sono morte tante persone che non c’entravano niente. La mattina si contavano i morti”, continua “per questo qui non voleva salire nessuno”. Continuerebbero a raccontarmi tanto altro, ma io dopo un po’ decido di rientrare a casa. E’ inutile dire quanto queste parole, dette da dei ragazzini, mi facciano effetto e come le riascolto, sovente, nella mia mente. Soprattutto quando si nota la rabbia e la tensione repressa che si portano dentro. Ora la situazione è molto tranquilla, la gente sta cercando di riprendersi quello che ha perso in questi anni.
Le strade e le scalinate del quartiere mi fanno pensare al centro storico di Napoli, la musica è sempre accesa, viene fuori dalle finestre movimentando tutte le strade, reggaeton, vallenato, bachata, salsa, c’è chi canticchia, e chi urla per raccogliere la spazzatura, le bambine muovono i fianchi a tempo di musica o giocano con le bambole sulle scale, i bambini impennano sulle biciclette, i chicchi di caffè sui panni in attesa di essere tostati, il “sancocho” che cuoce in grandi pentoloni sulla legna, le mamme che urlano per rimproverare i figli, i vecchietti con il cappello ‘paisa’ seduti sulla sedia di paglia che guardano le nipotine giocare con le vicine di casa, e i galli che camminano in cerca di qualche briciola.
Vivere “qui sopra” è anche godere di tramonti magnifici e di un panorama eccezionale sulla città di Medellin, circondata dalle montagne. Bere una birra guardando le stelle e la città che scorre come un time-lapse sotto i nostri piedi, le luci delle discoteche del sabato sera che illuminano il cielo e quelle delle case del quartiere che si spengono una alla volta.
A volte sembra di svegliarsi sul mondo, io che ho sempre amato e preferito il mare, mi sto ricredendo sulla montagna e sui suoi benefici: l’aria fresca e pulita che mi culla la mattina mentre faccio stretching, il sole così vicino e caldo sulla pelle, la natura, gli alberi di banano, le palme, gli uccelli e le nuvole che sono così vicine.