di Giulia Piscitelli, Medellín (Colombia) - Il sole brucia le strade e illumina il quartiere. Gennaio è uno dei mesi più secchi e caldi dell’anno e la città piano piano si riprende dalle vacanze di Natale, pronta a ricominciare un anno nuovo. Le scuole stanno per riaprire e, come queste, anche noi volontarie e volontari di ENGIM siamo in fermento per la preparazione dei nuovi progetti e delle nuove attività. Stiamo per aprire, infatti, un nuovo spazio, chiamato “El Hormiguero”, dove svolgiamo diverse attività: supporto scolastico per i minori della scuola primaria, corsi di teatro, formazioni al lavoro per adulti e giovani, e incontri mensili con le donne del quartiere per creare uno spazio sicuro di condivisione.
Le giornate passano tra la polvere, le pareti da stuccare e imbiancare, gli incontri con le scuole e le famiglie per sponsorizzare il nuovo spazio e i suoi servizi. C’è fermento, tanto entusiasmo e speranze ma, come è normale che sia, anche dubbi e timori. Quello dell’appoggio scolastico è uno dei progetti per me più importanti tra quelli che seguo. Le scuole della Sierra sono molto affollate e i docenti purtroppo non riescono sempre a seguire la mole di studenti e studentesse che si accalcano nelle classi. La conseguenza è che c’è un’elevata dispersione scolastica e un alto livello di analfabetismo. Molti bambini e bambine anche dell’età di 13 o 14 anni, non riescono ancora a leggere o a scrivere correttamente. Questa situazione è aggravata anche dall’inesistenza, la maggior parte delle volte, di un luogo tranquillo dove poter svolgere i compiti a casa, o di un supporto da parte di qualche adulto. “Es que yo tampoco se como se hacen estas cosas” è la frase che i genitori ci dicono quando parlano dei compiti dei figli.
Per appoggiare le scuole, dunque, abbiamo deciso di offrire questo servizio di tareas dirigidas. Per sponsorizzarlo, alcuni di noi hanno accompagnato il Padre V., prete della comunità e coordinatore del centro giovanile che ENGIM supporta, nelle visite domiciliari alle famiglie della Sierra. Considerato che la parrocchia locale offre un servizio mensa per le famiglie che non possono garantire il pranzo ai propri figli e figlie, e poiché per accedervi c’è bisogno di iscriversi, abbiamo pensato di unire le forze e andare insieme a sponsorizzare entrambe le attività. Così, ecco che io, Padre V. e la señora P. ci siamo ritrovati a percorrere l’intero quartiere sotto il sole cocente di gennaio. Queste visite domiciliari hanno mosso in me sensazioni contrastanti, come contrastante è questo quartiere. Camminando, si salgono e si scendono un milione di scale che attraversano case abbarbicate una sull’altra, alcune più solide e curate, altre molto semplici, quasi tutte con i tetti in lamiera; ad accomunarle c’è il bellissimo paesaggio che si dipana ad ogni strada, angolo, settore: Medellín e le sue montagne illuminate dal sole brillante, che fa spiccare i colori della natura tutto intorno.
Siamo “a caccia di bambini” come dice il Padre, e cerchiamo in ogni casa indizi che possano portarci a loro: andiamo a bussare alle porte delle case da dove provengono le loro voci sottili o dove sono stesi ad asciugare vestiti infantili. A quel punto, il rituale è sempre lo stesso: Padre V. si presenta e cerca di capire se quella famiglia possa aver bisogno della mensa e, poi, mi dà la parola per presentare il nostro servizio di rinforzo scolastico. La maggior parte delle volte gli occhi delle donne che ci ascoltano si accendono di curiosità rispetto a delle risorse che potrebbero forse alleviare un po’ le loro giornate. Parlo di donne perché, come spesso accade anche in Italia, sono loro a dover occuparsi delle faccende domestiche e della gestione dei figli, oltre a dover anche lavorare.
Di solito si tratta di nonne, madri, zie, vicine, sorelle maggiori adolescenti che cercano nel frattempo di continuare gli studi; si crea in ogni settore una rete femminile che cerca di sopperire alla mancanza di servizi o risorse che possa aiutarle con il cibo e la cura dei più piccoli. I padri, solitamente, lavorano e non sono reputati adatti a “questo tipo di cose”, oppure sono andati via, non volendo riconoscere i figli. Questo, purtroppo, si fa ancora più vero e difficile quando parliamo di minori con qualche disabilità, sia essa fisica o mentale, che costringe una di queste figure femminili a dedicare completamente il proprio tempo e le proprie risorse alla tutela di quest’ultimi, affrontando tutta una serie di difficoltà come il dover portare in braccio il minore in caso di disabilità fisica lungo le tante scale del quartiere o il non avere servizi di cura domiciliari.
Mentre Padre V. parla con queste donne, osservo e penso. Sento tanta rabbia ascoltando le loro storie; rabbia per saperle sole, loro e i loro figli, fratelli e nipoti; penso, mentre guardo le montagne intorno, che forse con il Padre qualcosa per aiutarle possiamo farlo, che possiamo offrire un’alternativa per permettere ai più piccoli di stare fuori casa per qualche ora al giorno imparando, conoscendo loro coetanei, giocando e lasciando del tempo a queste donne per riappropriarsi dei propri spazi e delle proprie identità. La sensazione di impotenza davanti a un sistema così complesso, troppo più grande di noi, a volte mi fa vacillare, sentendo il timore di non essere in grado di offrire qualcosa che possa davvero aver senso e possa essere efficace. Eppure, se non possiamo cambiare il sistema in maniera radicale, almeno possiamo offrire loro più tempo, tempo che non venga solo impegnato alla sopravvivenza ma anche alla conoscenza di stimoli nuovi e alla cura di se stesse.