Di Maria Elena Imperiale, Fier (Albania) - La possibilità di fare domanda per il Servizio Civile Universale è stata l’occasione giusta al momento giusto. Ho 22 anni e a gennaio del 2023, a Roma, dopo aver fatto la famosissima lista dei buoni propositi per l’anno appena iniziato, mi ero ripromessa di cambiare. Non tutto, ovviamente. Ma come direbbe Troisi, di ricominciare da 3. Ero e sono fiera del percorso iniziato con l’università, della nuova vita romana eppure sentivo che in quel momento della mia vita, alcune dinamiche non mi piacevano più, o non andavano bene. Così, a partire dalle solide basi sociali, emotive ed intellettuali che avevo costruito, ho fatto domanda per il Servizio Civile in Albania.
Quando sono stata selezionata e dopo aver accettato di partire con ENGiM per Fier, tutti e tutte mi dicevano: “Ma perché proprio l’Albania, cosa devi andare a fare là? Non avresti potuto scegliere che so, il Sud America, o a questo punto, farlo in Italia?” Davanti alle facce interdette delle mie amiche, ho capito di aver fatto la scelta giusta. Sono ormai passati quasi sei mesi dalla mia partenza per Fier. Insieme ad ENGiM, collaboro con il Qendra Sociale Murialdo, un centro nato a Fier alla fine degli anni ’90 che si occupa di fornire alla società corsi di formazione professionale, attività socio-culturali, educative e sportive con particolare focus alle categorie più giovani e svantaggiate.
In questa potente e ambiziosa realtà, un particolare focus è dato alla comunità rom di Fier. È questa straordinaria e bistrattata cultura che più di tutto mi ha spinta ad andare in Albania. Da settembre, infatti, tra le tante attività del nostro progetto, collaboro con la scuola di Zhupan, un villaggio vicino Fier. La mia sveglia suona molto presto, alle 6 di mattina, quando fuori è ancora buio. Judi, l’autista del bus passa a prendermi e insieme andiamo a Drize, il villaggio con la più alta concentrazione di Rom di Fier, dove prendiamo i bambini e le bambine per accompagnarli a scuola. Qui supporto le maestre nelle attività scolastiche e laboratoriali, ponendo maggiore attenzione i ragazzi rom. Alcuni di loro hanno difficoltà a leggere, scrivere o mantenere la concentrazione per più di 30 minuti: tutti fattori che diminuiscono la loro integrazione nel tessuto scolastico e sociale, soprattutto se si pensa che la lingua principale non è l’albanese ma il romanè e a scuola non viene valorizzata questa loro conoscenza. L’inserimento scolastico è andato di pari passo con la mia integrazione tra i bambini e le bambine di Drize: non è stato facile e immediato. Si pensa che fare amicizia con i più piccoli sia semplice. Qui a Fier non è stato così. Ho capito che l’infanzia e il diritto a questa non sono vissuti allo stesso modo per tutte le culture.
Siamo soliti pensare che per scoprire l’Altro, in senso antropologico o culturale, bisogna andare lontano, alla ricerca dell’esotico, quando in realtà basta attraversare il mare che abbiamo di fronte, cambiare la costa, ed avere un posizionamento meno eurocentrico per scoprire l’alterità nascosta, quella che si cela dietro i pregiudizi e le immagini stereotipate. La vita in Albania sì, è diversa. Mi sta insegnando ad avere un giudizio non dicotomico: non c’è bene o male. C’è solo una diversità altra rispetto a quella da cui proveniamo, in cui siamo cresciuti. Lo sforzo che dobbiamo compiere è di rispettare questa diversità che delle volte sembra insormontabile e sembra tutto vada contro di noi. Sono state molte le volte in cui mi sono sentita fuori posto, come se non riuscissi ad entrare dentro il tessuto sociale di questa terra, perché donna, perché giovane, perché italiana e con dei vestiti che nessuno qui ha mai visto prima.
Il mio sforzo e augurio per chi decide di avvicinarsi e ad approcciare con la cultura albanese è di essere gentili verso l’Altro, anche se ci sembra maleducato o poco propenso al dialogo. Proviamo però a fare uno sforzo, a pensare al passato e alla storia che la popolazione albanese si porta dietro e che custodisce e rivendica con fierezza. Questo è un tempo diverso. Lo vedo da come passano le giornate: non ho ancora capito se scorrono troppo velocemente o troppo lentamente. È un tempo diverso e me lo insegnano i bambini e le bambine di Drize: bisogna essere più dolci, perché queste anime vivono delle difficoltà che hanno radici nella loro storia. Una storia fatta di discriminazione e dominazione. I bambini rom sono forse l’ultimo anello di questa catena. Una catena fatta di dolore e povertà.
Non siamo qui per spezzare queste catene, sarebbe una pretesa troppo ambiziosa. Possiamo essere agenti di un piccolo cambiamento: essere la forza che queste persone non hanno avuto o a cui è stata sottratta, per aiutare a crescere insieme, ad essere più consapevoli delle possibilità e dei diritti che hanno. Possiamo incoraggiare ad andare a scuola, a creare uno spazio, come il centro multifunzionale di Drize, in cui potersi sentire al sicuro, dare al gioco il giusto valore, all’educazione una chiave di svolta per le proprie vite, alla delicatezza e alla comprensione, una nuova chiave di lettura del mondo.