Di Marta Passerini, Fier (Albania). Non sapendo bene da dove partire per raccontare la mia esperienza a Fier, forse dovrei cominciare dicendo che ad onor del vero io in Albania non ci volevo venire. Quando l’anno scorso, a conclusione di un master, mi hanno proposto una serie di mete per svolgere il tirocinio e mi hanno chiesto di esprimere delle preferenze, l’Albania non solo non figurava tra le preferenze ma tra tutte le mete per me era l’ultima della lista insieme all’Italia. L’Albania e l’Italia… perché si sa che se devi partire devi farlo in grande, se devi fare il cooperante devi farlo in grande, e l’Albania è solo dall’altra parte del mare e nei giorni senza foschia si vede persino dalla costa.
Ci sono addirittura i voli da Pescara (l’aeroporto più vicino a casa) ben tre volte a settimana. Praticamente è come restare a casa propria. Nulla di più lontano dalla realtà, non avrei potuto fare salto più grande, non avrei potuto fare un movimento più rivoluzionario di questo. Per questo l’Albania significa così tanto per me, per come si inserisce nella mia storia adesso, come un cambiamento, come una ventata di aria fresca.
Forse perché si capisca meglio devo fare un altro passo indietro, un flashback, per così dire, di quando ero iscritta alla triennale di scienze politiche e giravo tranquillamente per il “pratone” della Sapienza. Allora sì che parlavo dei Balcani e dell’Albania, ne parlavo tutti gli anni e tutti gli anni cercavo di programmare un road trip con le mie compagne di corso (spoiler: non è mai successo, ho messo piede per la prima volta a Tirana l’anno scorso). E poi è come se mi fossi disinnamorata, ho smesso di pensarci e ho cominciato a rivolgere lo sguardo altrove, alla ricerca di un’esperienza “forte”, decisiva. Soltanto parecchi anni dopo ho avuto l’occasione di fare il colloquio con ENGIM, prima per il tirocinio e poi per i CCP, un po’ come un desiderio che si avvera a scoppio ritardato, magari te ne sei anche dimenticato e quasi te la prendi con il destino perché ti sembra una beffa, in fondo tu avevi già cominciato a programmare altro.
Ora penso che non potesse esserci un tempo migliore per questo, anche se le tempistiche mi sembravano tutte sbagliate, anche se un po’ tutta la mia vita mi sembrava fuori tempo. Mentirei se dicessi di non aver mai provato rabbia, fatica o frustrazione eppure direi che due o tre cose le ho imparate da quando sono qui. C’è un proverbio albanese bellissimo che è il cuore della mia esperienza “Me të pyetur shkon deri në Stamboll” che potrebbe tradursi più o meno così “Se chiedi arrivi fino ad Istanbul” perché alla fine il segreto di tutto è chiedere ed affidarsi, essere curiosi, avere uno sguardo aperto e disponibile verso quello che ci circonda.
L’Albania mi ha regalato un amore e una gratitudine rinnovati per le cose piccole: il rito del caffè (che prima non bevevo) alle 11 e nel bar esposto al sole di fronte all’ufficio, i bambini che giocano nel cortile del palazzo, i vecchietti che si ritrovano per giocare a domino tutte le mattine, i forni, i mercati, la certezza che se c’è la musica tutti si metteranno a ballare in cerchio, tenendosi per mano e che io proverò tutte le volte a seguire il ritmo senza riuscirci ma senza oppormi. Qui in un paese che non è il mio ma in una quotidianità e in un tempo che sento fatti per me, porto nel cuore tutte le persone che ho incontrato anche nel caos dei nuovi arrivi e delle tante partenze.