Di Sara Bonato. Ricordo essere state queste le mie parole, all’allora Responsabile dei volontari in Servizio Civile dell’associazione con la quale sarei dovuta partire per il Perù, la quale a seguito di un lungo periodo di attesa e sospensione, si accingeva a comunicarmi che il Sud America sarebbe stato off-limits a causa dell’epidemia di Covid-19, ed a propormi un ricollocamento proprio in Albania.
“Non credo Sara ... è tutto in forse ... si vedrà a settembre, o forse a ottobre. Ma qualunque sia la tua decisione, devi farmi sapere entro oggi!” Panico: volevo andare dall’altra parte del mondo, e mi trovavo a partire per un Paese che dista appena un’ora di volo da casa mia, da cui mi separa soltanto un piccolo tratto di mare? Come può un Paese geograficamente così vicino a noi stupirmi, affascinarmi, incuriosirmi? Non sarà forse come svolgere il Servizio Civile in Italia?
Non ero mai stata prima di allora in Albania, ne avevo soltanto sentito parlare da amici e conoscenti che avevano origini albanesi o che vi avevano trascorso brevi periodi, per le vacanze estive o per tirocini universitari. Non sapevo proprio cosa avrei trovato. L’unica cosa di cui ero certa è che ero alla ricerca dello shock culturale, cercavo il fascino dell’esotico, del diverso, del lontano - e proprio per questo motivo avevo scelto il lontanissimo Perù - pensando, erroneamente, che la distanza chilometrica tra l’Italia ed il Paese di destinazione sarebbe stata direttamente proporzionale alla distanza culturale che avrei percepito e vissuto.
Alla fine ho scelto di pancia, e per l’Albania ci sono partita, vivo a Berat oramai da otto mesi e non avete idea di quante volte abbia provato tenerezza e un pizzico di imbarazzo per la Sara che, ad agosto, aveva posto quella domanda, sognando mete più lontane. Sono state infinite, fino ad ora, le volte in cui ho dovuto fermarmi, e ricordarmi di essere ancora nello stesso continente!
L’Albania per me è unica, complessa e semplice, trasparente e impenetrabile, viva, pulsante e romanticamente decadente. Ha un fascino del tutto singolare, i paesaggi mozzafiato, i rifiuti, le macchine lussuose e i carretti trainati dai muli, la ricchezza ostentata e la povertà malcelata.
Straniante è l’accostamento di palazzoni dei tempi del comunismo e moderni grattacieli, natura incontaminata ed abusivismo edilizio, modernità ed antiche tradizioni, che non finiscono mai di affascinarmi e stupirmi.
Semplice e disarmante è l’accoglienza degli albanesi, che con affetto e gratuità, ti fanno sentire a casa, e non perdono l’occasione per dirti quanto amino l’Italia. Ogni giorno mi sento straniera qui, sembro averlo scritto in fronte, nonostante ormai qualche frase di albanese sappia pronunciarla addirittura con disinvoltura, ma mai, mai mi sono sentita indesiderata, fuori posto, sbagliata. Spesso con genuina curiosità mi chiedono da dove venga, cosa io ci faccia proprio in Albania, per poi complimentarsi per le mie quattro parole di albanese stentato. Sorrido timidamente, ringrazio, e mi vergogno un po’ per tutti i giudizi e le frasi infelici che spesso ho sentito pronunciare dai miei connazionali sul popolo albanese.
É un Paese la cui distanza geografica dall’Italia è trascurabile, ma la distanza culturale è notevole, ed ogni volta che ne prendo atto, più o meno quotidianamente, mi rendo conto di essere stata vittima di un pregiudizio nel sottovalutarne il potenziale.
Una visita nel centro di Tirana vi farà pensare sì di essere ancora tutto sommato in Europa, ma mano a mano che vi allontanerete dalla capitale, addentrandovi nei paesini e nella periferia, guardandovi intorno, trascorrendo del tempo con le persone, chiacchierando, vivendoci a stretto contatto, sono certa che sarete in grado di percepire lo shock culturale, soprattutto se, come me, avrete la fortuna di entrare in contatto con le minoranze culturali che popolano questo Paese, le comunità rom ed egiziane.
Ogni giorno, questa esperienza mi schiaffa in faccia quanto sia privilegiata: sono nata in Europa, in un Paese che, seppur con le sue criticità, mi assicura, e mi ha assicurato nell’infanzia, dei diritti, come l’istruzione, il gioco, cure mediche di qualità. Quando torno a casa, ho una famiglia che mi aspetta e mi accoglie con gioia. Posso decidere io cosa fare del mio futuro, se studiare o lavorare, posso cercare un’occupazione che mi piaccia e che mi garantisca un’equa retribuzione.
Sono doppiamente fortunata perché spesso questi privilegi si danno per scontati, come se ci spettassero di diritto per il semplice fatto di essere nati: non è così, o meglio, non è così in ogni parte del mondo, ed è un privilegio anche poterne prendere atto attraverso l’esperienza del Servizio Civile.
Me lo fanno capire ogni giorno i bimbi del doposcuola, che arrivano trasandati, con i vestiti stazzonati: hanno i libri con le pagine volanti, pugni e pedate facili per risolvere ogni problema, ma un costante sorriso a trentadue denti. Non gli importa un granché della scuola, non perché siano incapaci, ma perché spesso non hanno chi, a casa, gliene sottolinei l’importanza. Ad un bimbo manca la mamma, ad un altro il papà, un altro vive con i nonni perché i genitori lavorano lontano, addirittura in altri Paesi. Cercano coccole ed attenzioni esclusive, e farli giocare insieme è un’impresa titanica. Mentirei se dicessi che dedicare il pomeriggio a loro è una passeggiata: sono un po’ una maestra, un po’ un’amica, un po’ una sorella maggiore, un arbitro, un’educatrice, un’infermiera quando si fanno male. Sono un po’ di tutto questo e spesso mi sembra ancora troppo poco e mi chiedo se potrei fare di più per loro. “Resilienza” è una parola abusata, ma se dovessi associarla ad un’immagine, penserei proprio a loro, con i loro sorrisi sgangherati e la capacità, forse da noi perduta, di essere felici con poco.
Me lo ricordano gli operatori del centro diurno per bambini ed adulti con disabilità nel quale collaboro alla mattina, quando mi spiegano che i bambini e gli adolescenti che frequentano il centro, seppure in età scolastica, non vanno a scuola, poiché non possono avere l’insegnante di sostegno nonostante abbiano una diagnosi conclamata: non essendo gratuito le famiglie non possono sostenere questa spesa, e gli insegnanti, dovendo seguire gli altri alunni, non possono farsi carico di un bambino con bisogni educativi speciali. Oppure quando osservano che sarebbero necessarie per i piccoli pazienti terapie maggiormente strutturate od individuali, ma non ci sono i professionisti necessari; od ancora quando mi confidano, un po’ in italiano, un po’ a gesti, un po’ in albanese, che arrivano a casa esausti perché le condizioni in cui lavorano sono molto faticose.
Lo sottolineano, seppur involontariamente, tutti quando ti chiedono “E in Italia come funziona? Si vive meglio o peggio?” È difficile per me essere obiettiva, perché schierarsi da una parte o dall’altra sarebbe sbagliato, superficiale, frettoloso. Ma è altrettanto vero che vivere qui, essere testimone di determinate dinamiche, situazioni, storie non può lasciarmi indifferente e mi fa spesso percepire un forte senso di ineguaglianza ed ingiustizia.
Vivere questa esperienza qui, è per me un’altalena di emozioni contrastanti, un mosaico di colori forti come è l’Albania stessa, le tinte scialbe e le mezze tonalità non sono pervenute! Il “fil rouge” tra l’energia e l’impotenza, tra la rabbia e la gioia strabordante è la gratitudine: l’incontro con l’Altro qui in Albania, chiunque esso sia stato fino ad oggi, non è mai stato superficiale ed insignificante, mi ha permesso di riflettere e di vivere questa esperienza e questo Paese con intensità, in tutte le sue sfaccettature.
L’augurio che mi faccio e che faccio a chi sta leggendo, o si accinge a partire per il Servizio Civile, oramai che questa esperienza volge verso la conclusione, è di non cercare l’apertura soltanto verso ciò che è “diverso” in quanto lontano, ma di saper guardare con la medesima curiosità genuina, con la medesima apertura ogni Altro che ci è accanto, anche il vicino di casa, in quanto portatore di una storia e di una ricchezza che meritano di essere ascoltate.