Di Giulia La Civita. Quando è stato chiesto chi avesse voglia di scrivere qualcosa ho risposto istintivamente di sì, ma è difficile, ora, mettere in fila pensieri, sensazioni, frustrazioni ed emozioni che ormai mi accompagnano da otto mesi. Ho cercato, invano, di capire da cosa volessi partire per raccontare un po’ della mia esperienza, cosa potesse essere più efficace, ma una risposta non me la sono data. Ho capito soltanto che voglio raccontare dei momenti, degli attimi, degli sguardi, degli scambi che mi hanno fatto capire che ero nel posto giusto al momento giusto.
Circa un anno fa davo le dimissioni da un ente profit per partire per il mio anno di servizio civile, nello stesso momento iniziava una pandemia globale, la cui portata era sconosciuta ai più. Le notizie che avevo raccolto sull’Albania erano varie e nella mia testa si era formata un’idea dai contorni sfumati di quello che avrei trovato semplicemente attraversando l’Adriatico. Avevo cercato su internet notizie e informazioni, Google foto mi aveva aiutata a dare una forma alla mia città di destinazione: Fier.
Se è stato facile cercare su Google e dare un volto al luogo che ci avrebbe ospitato è stato molto più complesso farsi un’idea concreta di cosa avrebbe significato prestare servizio all’interno del villaggio Rom di Drizë.
Probabilmente è normale avere pregiudizi, intesi proprio come pre-giudizi, ce ne sono alcuni che sono dentro di te, che rifuggi ma che hai, che ti accompagnano e di cui magari (giustamente) ti vergogni anche un po’; quello che cerco di fare ogni giorno, però, è di combattere ogni pregiudizio dentro e fuori di me, di non riportare ogni situazione alla mia realtà e alla mia quotidianità ma di contestualizzare tutto sospendendo il mio giudizio. Questa probabilmente è l’unica arma che mi aiuta a trovare un equilibrio e sopportare quelle che considero ingiustizie e diritti violati.
Drizë è un villaggio che nasce e si sviluppa lungo dei binari dismessi. I confini che la contraddistinguono sono la strada che fa da ingresso alla città di Fier e la fabbrica dell’Azotiku. La fabbrica dell’Azotiku sembra avvolgere Drizë, quasi da ogni punto del villaggio fa da sfondo alle case, ai binari e ad ogni spazio di gioco. Camminare sui binari, costeggiare l’Azotiku, entrare al villaggio ogni giorno mi dà sensazioni diverse: a volte lo trovo un paesaggio affascinante, ne vengo catturata e mi perdo nei dettagli, ogni tanto ne sono nauseata, l’odore è forte e la spazzatura traccia tutto il mio percorso. Queste sensazioni probabilmente rispecchiano il mio stato d’animo in quel momento, ma nonostante questi sentimenti (positivi e negativi) che mi accompagnano, entro al centro comunitario per i bimbi e sono felice, capisco il senso di essere lì; un po’ come presidio, un po’ come osservatori esterni, ma soprattutto come ospiti discreti che in punta di piedi entrano e assorbono tutto il bello e il buono che c’è da assorbire e cercano di darlo indietro, almeno in minima parte.
Per questo ed infiniti altri motivi ogni giorno percorro i binari che ci portano dalla strada al “Qendra”. Soltanto parlare con i bimbi è un’esperienza, non parlo l’albanese (se non quelle parole necessarie alla vita quotidiana) e purtroppo neanche il “romaní”, ma questo non ci impedisce di comunicare, anzi, ci siamo costruiti questa lingua fatta di gesti e parole accostate che comprendiamo solo noi.
Se mi siedo al tavolo per fare i compiti con Rexhina, so perfettamente che mi racconterà delle sue sorelle e del suo futuro viaggio in Kosovo e io capisco quello che lei mi dice perché parliamo con gli occhi, con i segni e con le parole che fanno parte del nostro personalissimo vocabolario. Anche a scuola, la mattina presto, ci capita di parlare con qualche bimbo o qualche bimba e se mi perdo pezzi e capisco solo poche parole sconnesse sono sicura che lì vicino a me ci saranno o Fabiana o Ervisa pronte a tradurmi. Quando entro al centro, so perfettamente che, seduti al tavolo, puntuali come due orologi, troverò Samuel e Bojka a destreggiarsi con la scrittura corsiva e la lettura, e già so che li dovrò pregare, corrompere con una merenda per farli finire i compiti, ma alla fine sono loro che da otto mesi, tutti i giorni alle 7.30, salgono sul pulmino alla volta della scuola di Zhupan e i passi che hanno fatto dall’inizio di Settembre ad oggi sono grandi, direi quasi da giganti.
Accompagnare nel gioco, nello svago, nello studio Athina, Rexhina, Fabiana, Ervisa, Samuel, Bojka, Gabriel e tutti gli altri bimbi è un’esperienza quotidiana ed un onore. Se penso al futuro so che saranno nei miei pensieri, che mi immaginerò la loro vita, loro adolescenti, loro adulti, se proprio fantastico mi immagino le nostre strade rincontrarsia, ma se non sarà così spero di lasciare un minuscolo ricordo, di essere stata una piccola finestra sul mondo, come qualcuno mi disse all’inizio di questo percorso. Sono sicura che negli occhi della mia nipotina vedrò crescere anche loro.
Noi volontari ogni anno prendiamo un’eredità grande dai volontari dell’anno precedente, e veniamo accolti sempre con entusiasmo, spero di essere stata all’altezza e di aver lasciato una bella eredità dietro di me.Ai volontari e alle volontarie future: siate gentili e abbiate cura di tutti e tutte, quello che darete sarà solo una goccia nel mare di gocce che riceverete.