Di Francesca Scioscia. 20 novembre: sembra una data qualunque e per molti è così. Anzi, in Italia è un altro giorno di paura, il Covid19 ha reso la normalità tutta spaventosamente uguale o, nei peggiori dei casi, dolorosa.
Questa data ha rappresentato l’avverarsi del mio desiderio. Se è vero che l’attesa aumenta il desiderio, io sono esplosa di gioia quando Giorgio, di Engim, mi ha chiamata e mi ha detto: “Il dipartimento ha accettato la proposta di ricollocamento in Albania, puoi partire!”. Avrà sicuramente detto altre cose ma io ero già entrata nella mia bolla di felicità e l’ho salutato con la voce tremante.
Oddio chi avverto prima? Ed ho iniziato a chiamare tutte le persone che, con me, stavano aspettando un verdetto. Non tutti erano felici quanto me della notizia, ovviamente stavo partendo in una situazione alquanto difficile per l’Italia e per il mondo. Ma nemmeno questo frenava la mia felicità. Anzi, cercavo di convincere loro che era la scelta più giusta, ma ottenendo effetti contrari, irritando con la mia felicità incontenibile. Non sono mancate le frasi: “Attenta, mettiti la mascherina, non accettare niente da quelli che non conosci, chiamami sempre per favore” e tante altre cose spinte anche un po' dal pregiudizio, ahimè.
La settimana che ha preceduto la partenza posso paragonarla al countdown di un detonatore (scusate l’analogia), pensavo di esplodere da un momento all’altro. Turni al lavoro, e dopo? Relax? Macché… Girare come una trottola per la città per poter reperire tutto il necessario.
In quella strana situazione pre-partenza per fortuna non ero sola. Con me Roberta, ricollocata anche lei a Fier, con la quale ho passato ore al telefono. E mentre non trattenevamo la gioia riflettevamo anche sul lavoro che andavamo a svolgere. Ed ecco il momento più doloroso stava arrivando: salutare mamma. Ho provato a rimandarlo ma ciò non l’avrebbe reso meno strong e così tra lacrime, baci e sorrisi lascio la mia terra per dirigermi proprio lì, nella terra delle aquile.
Arrivata a Tirana ancora non potevo crederci. Dopo un anno dal colloquio, ero partita, quando ormai avevo abbandonato l’idea, rassegnata. Fier ci accoglie con un gran bel sole, sarà di buon auspicio?
La parte di questa città che ha rapito tutta la mia attenzione è il villaggio rom. Il nostro servizio civile qui a Fier si svolge proprio qui, con i bimbi rom. Li accompagniamo a scuola col pulmino e siamo loro d’aiuto in classe, considerata la scarsa continuità della loro presenza, dovuta ad un retaggio culturale che privilegia il lavoro all’istruzione (ma ci sono anche altre motivazioni). Con loro siamo anche al famosissimo pasdite (pomeriggio, ovvero un centro comunitario) per aiutarli, per quanto la lingua ce lo permetta, nei detyra në shtepi (compiti a casa). Alla fine siamo noi che impariamo, ovviamente.
Ma non finisce qui: ci è stato concesso di fare visite domiciliari durante le quali ho potuto constatare che chi ha poco sa farselo bastare e adopera la fantasia per evitare gli sprechi (ad esempio l’acqua che le donne usano per lavare i vestiti, diventa il gioco dei più piccoli).
Con alcune donne di Drizë (villaggio rom) stiamo portando avanti una bella attività manuale, ovvero la tessitura al telaio. Un’attività molto impegnativa ma anche molto gratificante.
Svolgiamo il nostro Servizio Civile non solo in questo villaggio ma anche in quello di Levan, poco più distante. Anche qui diamo il nostro contributo, aiutando i bambini nei compiti e organizzando delle attività di animazione. Rimango sempre molto stupita per come mi accolgono, nonostante io non li veda con la stessa frequenza con cui vedo i bambini di Drizë. Fin da subito mi hanno inserita nei loro giochi, cercando di farmi capire le regole, facendomi sentire così a mio agio.
La barriera linguistica mi tiene ancorata al linguaggio non verbale (utilissimo strumento direi) soprattutto con i bimbi e nei negozi in cui mi reco per fare la spesa.
Per tutto quello che ho ricevuto fino ad ora e per quello che riceverò: Falemiderit shumë, Shqipëri!