Di Francesca Ciarmatori. Mi sento un po' un’“imbucata” in questo anno di servizio civile, in quanto sto per compiere i fatidici 30 e, in quello che sembra ormai lontano anni luce, ottobre 2019, sono riuscita a inviare la mia candidatura giusto in tempo. E mi sento un po' una “miracolata” per essere riuscita a partire come “servizio civilista”, nonostante le sfide che la pandemia globale ha posto e continua a porre
Di Francesca Ciarmatori. Mi sento un po' un’“imbucata” in questo anno di servizio civile, in quanto sto per compiere i fatidici 30 e, in quello che sembra ormai lontano anni luce, ottobre 2019, sono riuscita a inviare la mia candidatura giusto in tempo. E mi sento un po' una “miracolata” per essere riuscita a partire come “servizio civilista”, nonostante le sfide che la pandemia globale ha posto e continua a porre. Dal momento della mia domanda, originariamente per il Perù, al mio arrivo qui in Albania, sono cambiate tante cose, il mondo stesso ha cambiato volto a causa della pandemia.
Se è vero che all’inizio sia stato questo Paese a scegliermi, più che io a sceglierlo, ora posso dire che dopo questi primi quattro mesi trascorsi qui, sono felice che la vita, attraverso le vie traverse che solo lei conosce, mi abbia portato qui. Più cresco, più mi meraviglio di come ci sforziamo a progettare e pianificare il futuro, per poi ritrovarci all’improvviso a dover rimettere in discussione tutto e ripartire da zero. Il mio arrivo qui in Albania ha rappresentato questo, un ripartire e rimettermi in gioco.
Mi ricordo ancora il momento in cui, leggendo la scheda del progetto ENGIM qui a Fier, avevo realizzato che avrei lavorato con la comunità rom locale. Il mio primo pensiero in quel momento era stato “spero che quest’esperienza mi aiuti a crearmi la mia opinione su questa minoranza”, di cui si sa poco e che vive perennemente nello stigma e pregiudizio. Sono passati quattro mesi dal mio arrivo qui a Fier, e posso dire che quest’esperienza ci sta riuscendo.
Piano piano, in punta di piedi, sto scoprendo ogni giorno sfumature diverse della comunità di Drize, una delle comunità rom della città di Fier. Scoprire la comunità rom di Drize è ogni giorno una grande lezione, è un percorso affascinante che ti porta a rimettere in discussione tutto. Se c’è una cosa che ho capito grazie al tempo che ho trascorso finora nel villaggio, è che devi sospendere il tuo modo di vedere la vita e la tua concezione di “stile di vita”. I tuoi metri di giudizio non valgono, il “tuo” modo di pensare è solo tuo e non trova spazio in una comunità che per secoli ha costruito la sua cultura e il suo modo di vivere sull’essere comunità. I suoi usi e costumi sono la sua grande forza. L’identificarsi con quello stile di vita e con quel bagaglio di norme sociali fa di te parte di quella comunità.
Se me lo avessero detto quattro mesi fa che entrando al villaggio rom di Drize avrei provato un senso di familiarità e di inclusione da parte della comunità, non ci avrei mai creduto. Turno dopo turno, mi sorprendo di come stia iniziando a considerare Drize come un posto in cui mi sento serena, in cui incontro persone che mese dopo mese, mi hanno iniziato a conoscere ed accettare nella loro quotidianità. Nonostante il mio albanese sia alquanto “basico”, nonostante sia qui da poco, e nonostante io sia pur sempre una straniera che cammina per quelle strade, le persone della comunità di Drize mi hanno sempre fatto sentire ben accetta e ben voluta. Forse l’aspetto che più mi ha colpito sin dall’inizio, è stato proprio vedere che gli abitanti di Drize hanno sempre mostrato apertura e curiosità genuina nei miei confronti.
La gentilezza e l’apertura che ho sentito nei miei confronti sarà qualcosa che ricorderò per sempre. Non mi sarei sorpresa se le persone si fossero approcciate a me con sospetto e distacco, sarebbe stato lecito da parte loro domandarsi del perché io fossi lì, a guardare al villaggio - che per loro è casa e quotidianità - con gli occhi di chi si trova in un ambiente così nuovo da trovare tutto degno di nota e di essere fotografato. Invece ho trovato curiosità, e un senso di “sorpresa” per il fatto che io, come gli altri volontari, abbia deciso di avvicinarmi alla comunità, e di aiutare nei progetti sostenuti dal Qendra Sociale Murialdo in partenariato con Terre des Hommes.
L’ingresso al villaggio rappresenta già di per sè un momento unico. La comunità di Drize si è costruita sviluppandosi lungo i binari di una ex-ferrovia, oramai non più in funzione. Il binario, durante il periodo del regime dittatoriale di Enver Hoxha, serviva per trasportare il materiale necessario per l’Azotiku, azienda che nel trentennio dittatoriale produceva azoto liquido. È così che si presenta Drize, un insieme di case che si sviluppano lungo il binario, e sullo sfondo la struttura della ex-fabbrica di azoto, la cui architettura, nonostante sia oramai in disuso, continua a mantenere il suo fascino suggestivo.
Mi capita spesso di entrare a Drize da sola. Attraverso i binari, e lì incontro i bambini che giocano. Spesso sono proprio loro ad accompagnarmi nei vari centri dove sono diretta, come quello dove svolgiamo attività di doposcuola e di supporto allo studio, e il centro di inclusione delle donne della comunità, dove si svolgono lavori di sartoria artigianale.
Lavorare al “pasdite” (così definito da noi volontari), il centro del doposcuola di Drize, ha dato senso ai miei studi e nozioni teoriche sul diritto all’educazione. La mia tesi di laurea su questo argomento, le mie esperienze precedenti nel campo dell’advocacy per questo diritto, trovano un riscontro pratico ogni volta che mi trovo al centro. Il centro è aperto su base volontaria, i bambini non sono obbligati a venire. Il fatto di trovarli lì, ogni giorno, disposti a svolgere i compiti con noi, mi riconferma che un’attività così è importante per dare a questi bambini un posto sicuro in cui pensare solo a sè stessi e alla loro istruzione. In quel centro, i bambini possono rivendicare il loro diritto ad essere solo bambini.
Ogni volta che mi trovo al centro delle donne Filli i Drizes, ho modo di confrontarmi con ragazze e donne che vivono nella comunità. È qui che più ho avuto una finestra su che cosa significhi essere una donna rom. I confronti che ho avuto finora con le donne che frequentano il centro si sono rivelati momenti intensi in cui ho avuto la possibilità di conoscere più a fondo la cultura rom e di conoscere ragazze, molto spesso mie coetanee o più giovani, con storie e percorsi di vita molto diversi dal mio. Andare al centro significa anche affiancare l’operatrice sociale che lì lavora nelle visite familiari che hanno l’obiettivo di far conoscere alle altre donne di Drize quali attività si svolgono all’interno del centro. Sono felice di essermi potuta unire a queste visite, in quanto mi hanno permesso di entrare nelle case degli abitanti di Drize, di farmi conoscere, e cosa ancora più importante, di conoscere questa comunità dal suo interno. Durante queste visite ho avuto la possibilità di osservare e di notare nuovi aspetti della comunità che non avrei scoperto altrimenti. Le visite familiari hanno saputo essere finora momenti tanto intensi, a livello umano, quanto memorabili (come quando mi sono ritrovata “imbucata” ad un matrimonio rom o quando una delle donne a cui stavamo facendo visita mi ha insegnato dei passi di una danza tipica rom!).
Ci sono tante storie che mi hanno toccato finora. Soprattutto volti, che hanno caratterizzato e reso bello questo percorso a Fier e che sono sicura mi mancheranno al mio rientro in Italia. I bambini sono la parte più bella e più vera di questo viaggio umano che sto vivendo qui. I bambini di Drize sono pieni di sfumature, sono gioia pura. Sono un concentrato di invettiva misto a curiosità e spirito d’avventura. Essere un bambino a Drize non deve essere facile, ma per alcuni aspetti credo sia affascinante. I bambini vivono all’aria aperta, si creano delle avventure tra le stradine, il binario della ferrovia è per loro sempre fonte d’ispirazione per nuovi giochi.
Tra loro c’è un senso di appartenenza e comunità di cui ogni volta mi stupisco. I fratelli e sorelle più grandi si occupano di quelli più piccoli, con un senso di responsabilità che spesso li fa sembrare molto più grandi dell’età che hanno.
Tra questi, c’è Giuliano, un bambino di 7 anni a cui piace tanto andare a scuola ed è molto affezionato a noi volontari. Quando mi vede mi corre incontro e mi abbraccia, e mi chiede se sarò a scuola con lui il giorno dopo. C’è Rebecca, 10 anni, che quando ha scoperto che avrebbe trovato delle favole per bambini al centro d’aggregazione delle donne, si è fiondata lì e si è divorata una manciata di libri in poco tempo. E Matteo, 10, a cui piace fare foto e che mi chiede sempre se può farne dal mio telefono. E Belkisa, e Ramadan, e Dionisi e Christian e Romina ed Alexander. Devo un po' a tutti loro, perché con la loro spontaneità ed altruismo, mi hanno letteralmente presa per mano e fatto conoscere questa realtà attraverso la loro innocenza.
Non è però sempre facile trovarsi a Drize. A volte ci si scontra con dei muri, tra cui quello più difficile di tutti da scavalcare, quello culturale, con il quale spesso è difficile fare i conti. Filtrando la realtà che vedo attraverso l’insieme di valori che mi sono stati dati dai miei genitori e il background culturale dal quale provengo, mi risulta a volte difficile accettare quello che vedo. In particolare, il ruolo di subordinazione al marito che la donna continua a svolgere all’interno della comunità o i matrimoni precoci tra adolescenti, che purtroppo continua ad essere una realtà tra i giovani e le giovani della comunità. O, in particolar modo, il fatto che l’istruzione dei figli non sia, per molte famiglie, una priorità.
Credo che il potere che noi volontari abbiamo nel progetto di Drize sia proprio questo. Gettare le basi per aprire piccoli spazi di dialogo che potrebbero portare a dei cambiamenti silenziosi ma potenti. L’incontro tra due culture sempre le beneficia entrambe e la nostra presenza qui, forse, semplicemente presenta delle “alternative”, la possibilità di scelte diverse da quelle che sembrano uniche ed inevitabili, senza la presunzione di voler cambiare le cose. Creare un collegamento con un mondo che potrebbe sembrare distante se osservato da Drize e viceversa. Una finestra su una realtà e una cultura che forse non si sarebbero mai incontrate in altre maniere.
Sono partita con la voglia di vedere con i miei occhi un posto nuovo, e poter sperimentare in prima persona una cultura nuova. Con la voglia di crearmi il mio giudizio su persone e posti lontani, invece che aspettare che mi venissero raccontati. Sono estremamente grata ad ogni viaggio ed esperienza all’estero che ho finora avuto modo di intraprendere. Queste esperienze mi hanno permesso di crearmi la mia opinione sul mondo, e mi hanno concesso il grande lusso di non dipendere da racconti e storie che ci vengono raccontate, e purtroppo, molto spesso, in negativo.