Di Margherita Campaci. Emergenza Coronavirus, quasi 100 volontari dei Corpi Civili di Pace sono in giro per il mondo. Che si fa con loro? Si fanno rientrare o si aspetta e si vede giorno per giorno? Da quando questa pandemia ha colpito tutti, queste sono state le domande che riecheggiavano nell’aria. Poi la notizia del rientro in un pomeriggio di quarantena che non aveva molto di diverso dal precedente. Facce basite, o almeno lo era la mia, me lo aspettavo, certo, ma cercavo di convincere me stessa che non sarebbe accaduto tanto presto. Speravo e speravamo di avere più tempo per abituarci all’idea di dover lasciare tutto.
In fin dei conti a Fier non si stava poi così male. Prontamente, il governo albanese aveva adottato le misure restrittive per tentare di fermare la diffusione di questo maledetto virus; aveva imposto orari di uscita limitati, la chiusura di molte attività commerciali e di centri educativi ed aggregativi. Quindi sì, la situazione non era idilliaca, ma nel complesso era sicuramente meglio che a casa. E così, senza nemmeno rendersene conto, arriva il momento di partire, partire per davvero. Partire con la consapevolezza di aver concluso un percorso, un percorso interrotto bruscamente.
Però si sa, un’epidemia che si rispetti non ha pregiudizi e di certo non fa calcoli, abbiamo dovuto adeguarci e accettare lo sviluppo dell’epilogo. Affannosamente cerco di far entrare otto mesi e mezzo di vita in due valigie, senza troppo successo. Faccio e rifaccio i bagagli almeno tre volte e la sera prima di partire, eccoli lì in corridoio a ricordarmi che tutto stava finendo. Qualche pezzetto di me l’ho lasciato in territorio albanese, forse per mantenere viva quella sensazione di non essere definitivamente partita, o forse era solo un modo per dire “arrivederci” e non “addio”.
In quegli istanti di ansia e confusione per quello che stava accadendo, si aggiungeva la preoccupazione del futuro. Il lavoro sul campo sarebbe diventato un lontano ricordo? Avremmo concluso ciò che con passione abbiamo iniziato? Che si farà dopo, quando tutto questo passerà?
In men che non si dica arrivo in Italia, un’Italia che stento a riconoscere, e che fino ad allora avevo visto solo tramite lo schermo di un telefono. Un’atmosfera strana e surreale si respira. Strade deserte e un silenzio quasi assordante. La cosa più strana è che dopo quasi una settimana dal mio rientro, non ho ancora abbracciato mia madre. Le emozioni di queste settimane sono tante e contrapposte. Prima la rabbia per una decisione che comprendo ma non condivido, poi l’accettazione: è così e basta. E ancora, la tristezza per aver lasciato tutto con troppo anticipo. Ma mentre scrivo queste righe, sorrido ripensando ai mesi passati, trascorsi in un Paese tanto bello quanto contradditorio. Un Paese con forte desiderio di progresso ma che regala ancora angoli in cui il tempo sembra essersi fermato. La tristezza si trasformerà in nostalgia e la rabbia passerà, ma a restare impressi nella memoria saranno i ricordi, i volti dei bambini e delle persone che hanno fatto parte di questa preziosa esperienza.