Di Cecilia Procaccianti. È arrivato settembre, un mese che ha sempre significato l’inizio di qualcosa di nuovo, di un nuovo anno scolastico o universitario. Quest’anno, per me, ha significato scavalcare la metà del mio anno di Servizio Civile Universale a Berat, in Albania.
L’estate sembra essere passata così velocemente che faccio ancora fatica a delineare bene cosa sia successo, essendo stata ricca di mille avventure. Sei settimane di campi estivi, all’insegna di tanti balli, giochi, escursioni, sempre accompagnate dal vociare allegro dei bambini albanesi, liberi dagli impegni scolastici e carichi di voglia di divertirsi.
È stata anche un’estate in cui mi sono concessa la possibilità di andare più a fondo nella cultura albanese. La mia esperienza al nord dell’Albania mi ha mostrato le mille facce di cui questa nazione è permeata, dei suoi mille usi e costumi che variano da zona a zona. Ogni volta è stata una scoperta nuova, consapevole di aggiungere un qualcosa in più alla mia esperienza qui. È una terra questa che non smette mai di sbalordire, e forse lo stupore più grande resta nel fatto di trovarsi così vicini alla mia casa, che è l’Italia, che molto spesso sembra più lontana che mai.
Ho avuto la possibilità non solo di viaggiare al nord, ma anche di fare due settimane di servizio in agosto a Razëm, un paesino sperduto vicino Scutari. Mi sono ritrovata immersa nelle bellissime Alpi albanesi, con 17 ragazzi disabili e 14 gradi al sole. Mi è sembrato di viaggiare nel tempo, in una città in cui la piazza principale è fatta di un enorme prato verde dove pascolano le mucche. Scoprire questa realtà è stata l’esperienza più significativa dell’estate. Condividere le vacanze con questo gruppo di persone disabili ha significato mettersi alla prova in un contesto nuovo, in quel continuo rapporto tra apertura totale nella recezione di una cultura diversa e attaccamento alle mie radici, che mai come ora mi sembrano preziose e significanti per la mia formazione personale.
È venuto poi il tempo di tornare a Berat, alla routine quotidiana. Ma, visto che l’Albania non smette mai di stupire, al mio ritorno ho scoperto che l’acqua in casa è presente solo alla mattina presto e alla sera tardi. E io che pensavo di tornare alla normalità …
E tutto questo ti fa capire che la parola “normale” può assumere un valore diverso a seconda delle situazioni che ti trovi davanti: è “normale”, infatti, per i bambini di Berat, correre a piedi scalzi mentre giocano, perché le scarpe sono dei pesi fastidiosi che non ti fanno saltare abbastanza in alto; è “normale” ritrovarsi con 17 ragazzi disabili a cantare a squarciagola le canzoni popolari albanesi di cui non capisci le parole, ma che comunque ti toccano il cuore; è “normale” non avere acqua nelle ore centrali perché impari a farti bastare quella che ti è concessa nelle ore di erogazione. È “normale” sentirsi parte di qualcosa di così diverso da te, continuando a volerlo conoscere ancora, dopo sei mesi. Ed è “normale” anche smettere di chiedersi il perché delle cose, tanto sei immersa anima e corpo in questo contesto, che anche se alle volte è più difficile del previsto, tu sai che tanto l’acqua alla fine tornerà!